La prima osservazione da fare è desolante, poiché non dovrebbe essere necessario registrarla: se c’è una dignità cui le donne hanno il diritto inalienabile, è quella di essere libere di decidere per se stesse; semplicemente di essere (considerate) persone. Di vivere le proprie affettività e sessualità come preferiscono, di avere autodeterminazione sui propri corpi, di ubriacarsi in un locale l’8 marzo. Se per «festeggiare» si deve pontificare su cosa le donne, in quanto donne, possano e debbano, su cosa in quanto donne non possano o non debbano, si sta già sbagliando strada.
Non è la commemorazione di una tragedia (ma è bella lo stesso).
È convinzione diffusa che l’8 marzo ricorra la commemorazione del tragico incendio di una fabbrica tessile americana, nel quale sarebbero morte molte operaie. Non c’è tuttavia univocità tra i riferimenti a questa vicenda – si sente talvolta parlare della repressione di uno sciopero, cambia il nome della fabbrica, il fatto si sposta da New York a Chicago o Boston, cambiano i dettagli sulle condizioni di lavoro, spuntano fioriture di mimosa; l’evento è probabilmente l’incendio della fabbrica Triangle di New York del 25 (no, non 8) marzo 1911, che vide la morte di 146 operai, in maggioranza donne. Facile comprendere il radicamento di questa narrazione: c’è una tragedia innegabile, che unifica tutti nel dispiacere; ci sono delle vittime, che nella cultura cristiana sono sacre in quanto tali – l’essere state vittime le qualifica, divengono destinatarie del rispetto e dell’ammirazione collettiva e trasversale, avendo subito il Male sono necessariamente il Bene. Soprattutto, additare il Male che hanno subito rende tutti noi altri parte del Bene: il mito delle vittime è un mito autoassolutorio. Questa storia non può che piacere a tutti.
La ricorrenza, tuttavia, ha una storia diversa.
Le prime giornate di rivendicazione dei diritti delle donne furono lanciate dal Partito Socialista americano nel 1908 come “Woman’s Day”, intrecciandosi a scioperi di massa delle operaie e a manifestazioni per il diritto di voto, e poi istituite a livello internazionale dalla Conferenza Internazionale delle Donne Socialiste del 1910, insieme all’VIII Conferenza della Seconda Internazionale Socialista; furono celebrate discontinuamente: solo in alcuni Paesi, in date diverse a seconda delle ricorrenze storiche locali (in Francia, ad esempio, con l’anniversario della Comune di Parigi del 18 marzo; in Svezia con la Giornata del Lavoro del 1 maggio). Dallo scoppio della I Guerra Mondiale, non si tennero nei paesi belligeranti.
È stata la II Conferenza Mondiale delle Donne Comuniste, in occasione del III congresso dell’Internazionale Comunista tenutosi a Mosca nel 1921, a fissare nell’8 marzo la data della Giornata Internazionale della Donna. Si scelse il giorno in cui, nel 1917, le donne di Pietrogrado guidarono un corteo per le strade della capitale russa rivendicando la fine della guerra; poiché i cosacchi rifiutarono di fatto di reprimere la protesta, quella fu la prima di una serie di manifestazioni che sarebbero sfociate nella Rivoluzione. Facile capire come questa storia non possa piacere a tutti.
In Italia, la Giornata Internazionale della Donna è stata celebrata per la prima volta nel 1922, su iniziativa del Partito Comunista d’Italia; ma avrebbe incontrato il riconoscimento istituzionale solo dopo la risoluzione dell’ONU del 1977, che invitava gli stati membri ad osservarne la ricorrenza. A partire dal secondo dopoguerra è stata l’Unione delle Donne Italiane a guidarne le celebrazioni; è in quegli anni che, su idea di Teresa Mattei Rita Montagnana e Teresa Noce, la ricorrenza è stata associata ai fiori di mimosa, propri del periodo della Giornata, molto comuni e, secondo alcune testimonianze, già utilizzati durante la guerra come segno di riconoscimento tra i partigiani che li appuntavano sulla giacca.
Non deve piacere a tutti (ma è bella lo stesso).
Il mito delle vittime dell’incendio si è diffuso soprattutto nel secondo dopoguerra e durante la Guerra Fredda. È stato indubbiamente strumentale alla propaganda antisovietica; tuttavia, le sue caratteristiche lo fanno risultare molto comodo anche all’attuale approccio istituzionale e mediatico alla violenza di genere. La retorica istituzionale, appositamente trasversale, vuole le donne, in quanto donne, vittime, identificate dal subire il Male, dalla passività; i media danno in pasto all’opinione pubblica narrazioni di vittime, in quanto vittime, innocenti e sacre; lo sdegno e l’ammirazione per le vittime si manifestano trasversalmente, così trasversale è la reazione di tutela nei confronti di queste fragili creature, che meritano di subire (passivamente) il Bene. Così, le istituzioni possono celebrare la propria battaglia contro l’unica forma di violenza di genere che non compiono, quella delle percosse e dei femminicidi; dimenticando opportunamente che la violenza di genere non è solo questa e non colpisce soltanto donne, che molte altre violenze sessiste sono perpetrate proprio dalle istituzioni, negando o smantellando diritti, alimentando logiche discriminatorie e ghettizzanti, comprimendo o rimuovendo servizi, dequalificando e privando di tutele il lavoro, o anche solo ignorando la voce di categorie che pur dovrebbero rappresentare. Così, gruppi politici e d’opinione che ad una donna negherebbero l’autodeterminazione sul proprio corpo, sulla propria affettività e sessualità, sulla propria vita, possono farsi belli nel condannare le percosse e i femminicidi – magari cogliendo l’occasione per incolparne i migranti.
Molto più scomoda è una narrazione di donne attive, che si autodeterminano, che agiscono sulla Storia; ancor più scomoda se la vicenda ha una così forte caratterizzazione politica.
La proposta, lanciata dalla Rete Kurdistan, di dedicare la Giornata di quest’anno alle donne kurde che lottano per la propria indipendenza e quella del proprio popolo ha fatto storcere diversi nasi benpensanti, ma è molto più coerente con la storia della ricorrenza di quanto non lo sia la retorica delle istituzioni.
È una giornata di lotta di classe (ed è bella per questo).
Va bene così. La Giornata Internazionale della Donna e le sue rivendicazioni fondanti non sono indebolite dal non ricevere consenso trasversale. Il discorso sulle questioni di genere e sulle violenze eterosessiste non può prescindere da quello sulle condizioni materiali nel sistema socio-economico presente, non può prescindere da una dialettica di classe. D’altra parte, l’analisi delle contraddizioni di classe è incompleta e zoppicante se non guarda anche alle discriminazioni di genere ed eterosessiste. Il discorso antisessista è organico al discorso comunista.
Non avrà la bellezza delle vittime; ha la bellezza della lotta di classe.