Dopo l’arcobaleno colorato delle bandiere di ogni tipo (quelle di Libera, della pace, degli studenti universitari, della CGIL, di Rifondazione e tante altre ancora) e dei lunghi striscioni con parole forti e cariche di significato e dopo le toccanti parole di Don Ciotti e la voce potente di Fiorella Mannoia, si sono aperti i vari seminari. Uno di questi, svoltosi in un’aula della facoltà di psicologia, ha visto la presentazione di un libro scritto da due giovani ragazze, Ludovica Ioppolo e Martina Panzarasa, dal titolo “Al nostro posto. Donne che resistono alle mafie”. Il libro riporta le testimonianze di sei figure femminili, che loro malgrado o per scelta volontaria, si sono trovate a doversi misurare e confrontare con il fenomeno della criminalità organizzata, senza assurgere l’aura diafana di eroine irraggiungibili, ma presentando le loro storie come inserite all’interno di un’esistenza “normale” che non vuole essere tinta di un simbolismo astratto e retorico. Ci sembra opportuno suddividere la conferenza in due parti, per non rischiare di tralasciare quasi niente delle parole che sono state pronunciate e riporteremo quindi qui i primi tre interventi per poi lasciare gli altri ad una parte successiva.
Il primo a prendere la parola è stato Marco Gaiba, direttore delle Politiche sociali di Coop Adriatica. Questa cooperativa, sebbene parte integrante del sistema coop, non è una qualunque impresa commerciale in quanto, lontana da essere una società di capitali, vede come proprietari soltanto soci, ovvero tutti quei cittadini maggiorenni che versano volontariamente una quota di 25 euro per aderire alla cooperativa, fino ad arrivare, oggi ad una quota di 1.200.000 soci. Tra le iniziative della cooperativa rientra anche la promozione del libro, che viene venduto nei centri coop e il cui ricavato è destinato esclusivamente al sostegno di Libera. Gaiba sottolinea come lo scritto delle due giovani autrici cerchi di veicolare il delicato tema della lotta alla mafia, raccontando storie vere e forti di donne che contro di essa continuano a battersi, con quella determinazione e quella dolce e coraggiosa ostinazione di cui forse soprattutto le donne sono capaci. Del libro, continua Gaiba, prodotto in 5000 copie, ne sono state già vendute 3000 copie. Un’altra iniziativa promossa dalla Cooperativa Adriatica a favore di Libera è stata la “Carta Solidale”, una tesserina (simile a una tessera telefonica), marcata da 1 a 5 euro, che i clienti possono “comprare” i cui ricavati sono finalizzati alla creazione di un’altra cooperativa di Libera Terra nell’area siciliana e che per ora è riuscita a raccogliere già 20.000 euro.
La seconda figura a parlare è quella di Cinzia Franchini la cui testimonianza risulta drammaticamente singolare. Cinzia si impegna infatti nella lotta alla mafia all’interno di un ambito prettamente maschile, ovvero quello dell’autotrasporto. È infatti la prima presidentessa nazionale donna di un’associazione di autotrasporto, per esattezza la Cna-Fita, nonché la più giovane, avendo appena 41 anni. Come abbiamo detto e come ben si può immaginare il settore del trasporto è spesso identificato come un settore maschile, quindi non ci stupiamo che la sua candidatura abbia scaturito diverse perplessità da parte dei colleghi maschi e forse dell’opinione degli uomini in generale. Il percorso lavorativo di Cinzia inizia in azienda dove per ben 10 anni guida un automezzo. Poi viene eletta come presidente provinciale a Modena (sua città), dopodiché diventa presidente regionale fino alla nomina di presidente nazionale della Cna-Fita, la quale associa 30.000 persone e ha a che fare con circa 103.000 imprese. Qui Cinzia scopre che il 7/8 % di queste ultime sono imprese con infiltrazioni mafiose all’interno e dati ufficiosi riportano una percentuale ancora più alta. Per questo motivo la Franchini si rende subito conto che il problema principale della sua azienda è questo e decide di affrontarlo a muso duro, nonostante le risposte ricevute che tendevano a sminuire il problema affermando che la mafia, in una città del centro-nord non risultava esistere. Cinzia continua la sua testimonianza – che si fa sempre più spaventosa – raccontando che, quando nel gennaio dello scorso anno fu proclamato il fermo dell’autotrasporto, la Cna Fita non dette il suo assenso. Ovviamente tutti sappiamo che un fermo del trasporto rischia di bloccare tutto il paese e che quindi è molto più semplice ottenere i risultati che con quello “sciopero” si intende raggiungere. Ma La Franchini si era resa conto che più che rivendicazioni di lavoratori e aziende ciò che era in gioco erano gli interessi delle imprese infiltrate e quindi quelli delle associazioni mafiose. Per questo la presidentessa non ha voluto piegarsi alle regole di tale insano e perfido gioco, non ha voluto entrare in una scacchiera malata di criminalità e trasporti illegali (droga, armi, alcol, prostituzione..). La sua mossa però le è costata caro: infatti nel dicembre del 2010 la donna riceve lettere anonime con minacce fino ad una “mortifera” busta giuntale nel mese di aprile. Questa conteneva tre proiettili, uno destinato al suo segretario, il secondo a lei stessa e il terzo accompagnato da un biglietto con su un punto interrogativo e un’inquietante scritta che riportava le seguenti parole: “d’ora in avanti guardatevi le ombre”. Nessuno prima di lei, nel mondo dell’autotrasporto era stato vittima di simili eventi minatori. Si può ben comprendere lo sconcerto e la paura che inizialmente hanno attraversato e lacerato la donna, in pena non solo per la propria vita, ma anche per quella dei cari. Inoltre, nonostante Cinzia avesse deciso di lasciare la vicenda all’oscuro, per non allarmare le persone a lei più vicine, uscendo di casa si trova bombardata di locandine che le sbattono in faccia quella triste vicenda di cui si è trovata, suo malgrado, protagonista. La cosa ancor più paradossale è poi il fatto che la solidarietà le è giunta da vari politici e molte associazioni (tipo CGL, CONFINDUSTRIA ….), ma un totale silenzio da quello stesso mondo dell’autotrasporto di cui Cinzia è a capo, oltre alla noncuranza ricevuta dal prefetto di Modena che ha continuato a ribadire l’inesistenza della mafia nella città, esortandola perciò a non preoccuparsi. La preoccupazione e l’impegno di Cinzia sono però ugualmente proseguiti, grazie alla forte tenacia e al suo credere fermamente e convintamente nella lotta che porta avanti, nonostante la tensione e la paura, riaccesa con una lettera contenente altri proiettili che risale soltanto ad un mese fa. Nel tentativo di allargare la consapevolezza della presenza della mafia radicata anche nell’autotrasporto, la Cna-Fita, grazie all’impegno di Cinzia ha dato avvio ad una serie di proposte a livello normativo, come quella di intervenire sull’albo dei trasportatori, in modo che non sia sufficiente “avere le carte in regola” (dato che anche i mafiosi possono averle), ma chi vuole iscriversi all’albo d’ora in avanti deve dimostrare di più e non solo possedere dei certificati. Il percorso da fare, conclude Cinzia, è faticoso ma in salita e crede fermamente che qualcosa possa cambiare, se le cose si fanno con la giusta determinazione e perseveranza, consapevoli che, citando De Andrè, anche “dal letame nascono i fior”, anche qualcosa di positivo può germogliare dalle radici più marce che solo con questo impegno e senza l’imperversante (soprattutto al nord) cecità sul fenomeno mafioso, possono essere sradicate.
La successiva, toccante e sincera testimonianza, proviene da Maddalena Rostagno, figlia di Mauro Rostagno, giornalista e sociologo di origini piemontesi, nonché uno dei fondatori del movimento politico Lotta Continua, ucciso in un agguato mafioso in Sicilia a 46 anni, il 26 settembre del 1988. Maddalena, che alla morte del padre aveva solo 15 anni, è una delle sei figure femminili la cui testimonianza compare nel libro. Le parole con cui apre il suo discorso sono di una quasi brutale onestà. Maddalena non riesce a sopportare chi le si avvicina con frasi del tipo: Rostagno , Borsellino, Falcone e tutti gli altri, vivono”. Frasi di questo genere, per quanto indice di una solidarietà e di una vicinanza affettiva e dimostrativa non riporteranno in vita né il padre né gli altri uomini che nella lotta alla mafia hanno perso la vita. La sua è una sofferenza e una storia che vorrebbero rimanere privati, nell’intima stanza della sua anima ferita, bruciata, da una perdita così prematura e dolorosa. Così come non tollera esser chiamata eroina, esser forgiata a immagine simbolica di una battaglia che non ha scelto ma in cui si è trovata a dover combattere, con cui ha dovuto fare i conti. Maddalena non si ritiene la persona più adatta a rappresentare tutto questo; si dice poco coraggiosa e inadeguata oratrice (affermazione smentita dall’intervento di oggi!). Raccontando, senza ridondanza e con una pudica delicatezza la sua tragica vicenda, ammette che quando ha iniziato a occuparsi delle indagini sulla morte del padre e quindi a doversi esporre mediaticamente non si è riconosciuta nelle pagine di giornali e nelle immagini un po’strumentalizzate che di lei davano le televisioni; unica descrizione in cui si è potuta ritrovare è stata appunto quella che ne dà Martina nelle pagine del suddetto libro. Parlando di Mauro Rostagno, dice quanto egli fosse una persona piena di vita, che nella propria esistenza aveva fatto di tutto, dal sociologo, al giornalista..e che la sua era stata una scelta lucida, quella di confrontarsi e battersi apertamente contro la gramigna mafiosa, scelta che tutt’ora Maddalena non sa se abbia valso la pena portare avanti. Noi pensiamo di sì. Inizialmente, continua la Rostagno, quando il padre morì, lei, troppo piccola, con la dolce incoscienza della sua giovinezza, aveva preferito rimanere “in disparte” – tanto da non andare neppure al funerale – lontana e inaccessibile dagli sguardi penetranti di chi vuol sapere, di chi “spia”, pur senza malizia, nel privato altrui, anche a causa della grande stima e notorietà che circondava Mauro. E per otto anni Maddalena ha continuato a coltivare il suo dolore nella sua ovattata solitudine, senza esporsi all’assalto dell’opinione pubblica. Fino al momento in cui, dopo altri otto anni, uno dei procuratori che si occupava delle indagini dell’uccisione paterna, decide che si trattava di un omicidio non di mafia ma per questioni familiari, tanto che la madre di Maddalena viene arrestata. A quel punto la ragazza decide di “darsi in pasto ai lupi” della stampa e dei media: scrive immediatamente un comunicato stampa all’Ansa, chiedendo, a chiunque fosse interessato, di venire a intervistarla per farsi raccontare la sua storia. Così davanti al carcere di San Vittore, in cui era rinchiusa sua mamma, Maddalene si presta alle domande di qualsiasi emittente televisiva o testata giornalistica. Inoltre si mette a studiare tutte le carte, fino a che, finalmente, soltanto nel 2011 si apre il processo. A chi le dice “Mauro sarebbe fiero di te” risponde che suo padre, come qualsiasi buon padre, l’amava nel profondo e le aveva sempre insegnato che nella vita, l’unica cosa che conta è l’essere coerenti con sé stessi, qualsiasi scelta si faccia, qualsiasi cosa si decida di portare avanti. Le ha insegnato che non bisogna etichettare né tantomeno auto etichettarsi dentro rigide caselle, dogmatiche finestre in cui gli altri, il conformismo della società, vogliono serrarci. Ciò che conta siamo noi e il nostro libero pensiero, le nostre libere scelte, le nostre libere azioni. Quindi, continua Maddalena, “qualsiasi cosa avessi fatto, mio padre rimarrebbe comunque fiero di me, anche se smettessi di presentarmi nelle aule di tribunale per assistere al processo sulla sua morte” e ribadisce che non vuole essere considerata un simbolo, che ciò che fa lo fa puramente per sé, “per fare pulizia”, per non piegarsi a una logica che fa del padre la vittima dei cattivi e sua madre una moglie “puttana” (tra l’altro i due non erano sposati e questo ha reso la donna vittima di una feroce, bigotta e infamante opinione pubblica che la bollava con tale appellativo); la sua battaglia vuole solo mettere al corrente di come vanno e funzionano certe cose, su come la giustizia sia solo spesso pura finzione, sia una farlocca messinscena che non tutela l’interessato. A tal proposito infatti Maddalena denuncia il fatto che non le vengano retribuiti i giorni in cui tiene ad essere presente in aula, ma che le vengono riconosciuti soltanto i giorni in cui è lei il teste, così come molte altre o altri che hanno subito una simile situazione non riescono neanche a pagarsi l’avvocato, che fortunatamente lei è riuscita ad avere quasi gratuitamente (se non per i rimborsi benzina che deve dargli), grazie alla fama del padre e all’aiuto di amici. In un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo, c’è bisogno di ridare una dignità al tutto, di recuperare quell’ “ABC” del diritto alla vita, al lavoro, allo studio, alla salute, alla giustizia..che abbiamo perduto, abbiamo dilaniato, svilito, umiliato. “Manca un filo di logica e umanità in tutto questo”, conclude Maddalena.
Immagine tratta da simonemercurio.ilcannocchiale.it