L’attenzione mediatica che è stata dedicata negli ultimi mesi a molti sanguinosi fatti di cronaca ha spostato i riflettori su un problema strutturale che è sempre stato presente nella società italiana, ottenendo in alcuni casi l’effetto perverso di svuotarne la portata. Il femminicidio è stato bollato come un termine fastidioso, sgradevole, creato a tavolino per scatenare un allarmismo che non trova fondamento nei dati reali.
In realtà non si tratta di un concetto costruito per profitto, né tantomeno nato per caso.
Fu coniato negli anni Novanta per dare risalto politico a un fenomeno quasi sconosciuto: allora come oggi la prima causa di mortalità femminile nel mondo era l’omicidio. L’unica differenza è che nessuno ne parlava.
Oggi, finalmente, di femminicidio si scrive e si discute, soprattutto in relazione alla ratifica della Convenzione di Istanbul, il più importante strumento di diritto internazionale finora adottato nella speranza di contrastare la violenza sulle donne. La decisione del governo italiano è senza dubbio un passo avanti carico di aspettative, ma è bene sottolineare che la ratifica in sé non è altro che un gesto dal valore simbolico, privo di applicazione concreta fino a quando non saranno integrate nel nostro ordinamento le direttive europee ad esso correlate. Inoltre la Convenzione non sarà effettiva finché non sarà firmata da almeno dieci Stati, di cui otto membri del Consiglio d’Europa.
Il rischio concreto è che rimanga una bellissima scatola vuota.
La sensazione è che, da sola, la Convenzione di Istanbul non possa essere la soluzione al problema. Neppure l’attenzione dei media è sufficiente, per quanto possa contribuire a sdoganare un argomento di cui si dovrebbe parlare senza tabù. Il femminicidio è troppo radicato dal punto di vista culturale per essere cancellato a colpi di ratifiche e titoloni sui giornali. Non si tratta soltanto dell’annientamento fisico di una persona di sesso femminile, ma anche dell’implicita condanna di un comportamento “trasgressivo”, lontano dai ruoli imposti dalla tradizione. In alcuni uomini è ancora forte la convinzione che la violenza contro le donne sia uno strumento legittimo per mantenerne la subordinazione.
Il femminicidio non è un’emergenza, ma un fenomeno endemico che non è mai stato affrontato adeguatamente. Per questo è tanto difficile da estirpare. Basti pensare che fino al 1981 l’articolo 587 del Codice Penale prevedeva un’attenuazione della pena in caso di delitto d’onore:
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.
La cultura stessa ha contribuito a rafforzare l’idea che la violenza maschile sulle donne sia qualcosa di giustificabile, e in un certo senso naturale. E’ positivo, e auspicabile, parlare di task force contro il femminicidio, di case-rifugio e centri anti- violenza, ma avendo bene in mente la consapevolezza che interventi di questo tipo, senza alcun sostegno alle spalle, rischiano di essere una goccia nel mare. E’ necessario lavorare anche sul lungo periodo, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei tribunali, in modo capillare e continuo. Nessun intervento da parte delle istituzioni potrà essere davvero risolutivo, finché il rapporto tra uomo e donna continuerà a essere viziato dalla pretesa di controllo e possesso.
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