Giovedì, 06 Giugno 2013 23:11

Mi cercarono l'anima a forza di botte

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La terza Corte d’Assise di Roma ha parlato chiaro: le uniche persone che possono essere ritenute colpevoli per aver ucciso Stefano Cucchi sono cinque dei sei medici imputati; agenti della polizia ed infermieri sono stati dichiarati non colpevoli dal momento che il fatto non sussiste. E’ in questo modo che si chiude il processo di primo grado sulla morte del ragazzo: con l’attribuzione di pene irrisorie per chi non ha curato Stefano. Ma nessuno è parso interessarsi al perché Stefano ci sia arrivato in quelle condizioni tra le mani dei medici.

Raccontare nuovamente cosa successe nei giorni che seguirono quel 15 ottobre 2009, quando Stefano venne arrestato perché trovato in possesso di sostanze stupefacenti potrebbe risultare ai molti superfluo: grazie alla tenacia ed al coraggio della famiglia, della sorella Ilaria soprattutto, sono rimasti in pochi in Italia a non sapere che Stefano morì in seguito al pestaggio subito durante il periodo di tutela cautelare. E sempre in pochi saranno stati quelli che, purtroppo, a sentire la Corte pronunciarsi possono dire di essere sorpresi: quelli trascorsi dal 2009 sono stati quattro anni durante i quali i fautori della morte di Stefano non hanno fatto che ripetere che il ragazzo si era tumefatto la faccia scivolando giù dalle scale e che la morte non è stata che conseguenza della sua eccessiva magrezza. Con premesse del genere, dispiace dirlo, ma sarebbe stato sorprendente un pronunciamento in senso opposto.

E se non possiamo dirci sorpresi è perché la sentenza sul caso Cucchi è stata pronunciata in Italia. Non ci teniamo tanto a sprecare parole contro coloro che sono i veri colpevoli della morte di Stefano: dopo la rabbia, una persona che approfitta del proprio ruolo e tradisce il compito di protezione che la comunità gli ha affidato, ammazzando un ragazzo di botte non si merita che disprezzo e pietà, nel senso più dispregiativo che si possa dare al termine. Ma parlando degli “esecutori materiali” ci limitiamo a singoli. La cosa più spaventosa di tutta la vicenda è la cecità palesata dallo Stato. Non si vuole riconoscere la responsabilità propria dello Stato nel momento che un uomo sotto la sua tutela viene maltrattato e privato della vita. E anche questa è, ahinoi, una storia vecchia per le nostre orecchie. Ricordando Stefano, la mente corre ai fatti di Genova del 2001, corre alla scuola Diaz e a Bolzaneto. E brucia la consapevolezza che in Italia ci sia una precisa e ferrea volontà di evitare che certi fatti si ripetano: è questa volontà con cui spieghiamo l’ostinatezza con cui il Parlamento italiano si rifiuta di elaborare un disegno di legge che preveda il reato di tortura anche per il nostro ordinamento. Sono passati oltre dieci anni dai pestaggi a Genova di quel luglio 2001. L’Unione Europea, che ci sta tanto a cuore quando parliamo di Fiscal Compact e pareggio di bilancio, ha sottolineato quanto sia vergognoso che una di quelle che viene annoverata tra la maggiori democrazie al mondo si rifiuti di darsi gli strumenti per punire coloro che sporcarono i muri della scuola Diaz di Genova col sangue dei manifestanti accampati per la notte. Ed è la stessa Unione Europea che continua a sanzionare il nostro Paese per il sovraffollamento che caratterizza le sue carceri: uomini stipati in celle come sardine, privati di dignità e dei propri diritti fondamentali.

Ma da noi, diciamocelo francamente, si pensa che se un uomo finisce in carcere c’è di sicuro un motivo. Quante volte, anzi, ci lamentiamo perché uno ammazza la mamma e poi viene rilasciato dopo qualche anno? Se qualcuno se li fa, questi benedetti anni di carcere, tanto meglio. E se uno sbaglia, diciamocelo, è allucinante che abbia delle pretese sulle condizioni che gli vengono riservate: quanti di noi hanno pensato che i carcerati altro non sono che un peso per lo Stato e che sarebbe meglio farli lavorare? E, allo stesso modo, Stefano Cucchi altro non era che un tossico pendente. Non importa se, fino a quel 15 ottobre, avesse un lavoro, una vita, una famiglia. Quello che conta è che era stato arrestato perché aveva commesso un reato. Come considerare quindi la sua morte se non come un incidente di percorso?

Con questa sentenza di primo grado, lo Stato italiano non fa che avvallare questa mentalità. Continua a non voler far assumere le proprie responsabilità ai suoi funzionari che sbagliano. Dicendo che Stefano è morto perché non è stato curato nel modo giusto non solo non riconosce l’importanza di ogni singola vita, fosse anche quella del peggior delinquente, ma non riesce ad imporre la propria autorità tutelando a tutti i costi l’incolumità delle persone che vengono sottoposte alla sua diretta tutela. Ed è sempre l’autorità dello Stato che viene lesa quando questo continua a rifiutarsi di introdurre il reato di tortura nell’ordinamento, quando dal 2008 sono stati 145 i paesi al mondo ad aver ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. E’ lo stesso Stato che, quindi, in un certo senso, giustifica i ragionamenti che abbiamo (forse) estremizzato sopra. E' prendendosi le proprie responsabilità e facendo in modo che chi ha sbagliato ricoprendo una funzione pubblica, arrecando un danno non solo ad un singolo cittadino, ma a tutta la comunità, rendendo le istituzioni meno degne di fiducia e rispetto, che si può tentare di cambiare la mentalità di questo Paese. Da noi la cosa pubblica, intesa in senso lato, viene identificata solo col paese del Ben Godi, nel quale ognuno può fare i propri comodi: le dirette conseguenze sono la diffidenza nei confronti di qualunque cosa sia accompagnato dall'aggettivo comune e l'indifferenza nei confronti dell'altro.
In Italia non avremo, quindi, almeno a breve una forte mobilitazione per quelli ammazzati di botte o stipati come acciughe in cella: abbiamo l’IMU a cui pensare.

 Immagine tratta da: www.blog.edufrog.it

Ultima modifica il Venerdì, 07 Giugno 2013 00:17
Diletta Gasparo

"E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa"

Cit.

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