È da tre anni ormai che la bella libreria – un vero gioiello, una perla rara in una società che vede sempre di più chiudere piccoli luoghi di incantato e meraviglia in cui perdersi tra la polvere dei libri a favore di aziende megalomani in cui si vendono libri, più che immergersi in essi e lasciarsi guidare dai consigli dei librai, che ti prendono per mano invitandoti a lasciarti trasportare dalle file di scaffali colmi di nomi introvabili e a volte semisconosciuti – festeggia la giornata mondiale del libro. Questa festa – e in un modo sempre maggiormente invaso dalla tecnologia e la virtualità di i-phone e tablet proprio di festa bisogna parlare, festa nel senso di occasione speciale e ahimè, sempre più sporadica forse – nota come giornata mondiale del libro e delle rose nasce nel 1996, come evento patrocinato dall’Unesco per promuovere la lettura, la produzione e la diffusione dei libri.
La data del 23 aprile è stata scelta in quanto ricorre, accomunandoli, nelle date di nascita o di morte di molti tra i più importanti letterati: William Shakespeare e Miguel Cervantes, ad esempio sono nati in questo giorno, l’uno nel 1564, l’altro nel 1547 (e tra l’altro morti nello stesso anno, il 1616!), ma anche Nabokov o Maurice Duron e la "nostra" Rossana Rossanda, che ha festeggiato da pochissimo il suo novantesimo compleanno. La giornata viene celebrata tradizionalmente in Catalogna dove ogni anno, quando si entra in una libreria per ogni libro comprato viene regalata una rosa, secondo il motto “una rosa para amor, un libro para siempre”. Sì, un libro vale per sempre, come l’amore quando è vero e non finisce male. Anzi, un libro dura molto di più dell’amore, talvolta così effimero e inafferrabile, talvolta così tempestoso e deludente. I libri possono sì, essere tempestosi, farti piangere, farti tremare, farti rabbrividire, farti gridare, sussultare, arrabbiare, ma, almeno quelli belli, non possono deluderti mai. E non muoiono. Questa è la potenza assoluta e unica del libro e della lettura. Che anche quando finiscono continuano a vivere, dentro di te per sempre. E per qualcun altro che aprirà un giorno quelle stesse pagine e dentro vi troverà il suo mondo. Così il libro muore forse ma di una morte che rinasce sempre, resuscita sempre e sempre di nuovo, in maniera sempre diversa, pur restando lo stesso libro. Diversa per te che un giorno riapri un libro che hai amato quando eri ragazzo, diversa per chi quello stesso in quello stesso libro ci trova significati totalmente opposti.
Mille lingue parlano le stesse parole, mille meraviglie spalanca ogni stessa pagina. "Un libro para siempre" perché la sua bellezza, il suo valore sono e resteranno, è un ricettacolo di infinito, eternità racchiusa però in quell’unico, delizioso, preciso istante in cui tu leggi. Leggi e il libro diventa immenso, eterno, senza misura, senza tempo: quel momento della lettura, quel momento meraviglioso in cui si lascia scivolare, come una carezza, la nostra mano su una copertina, quel momento sublime in cui si odorano le pagine leggere, quasi impalpabili di una vecchia edizione, quel momento in cui si lasciano scorrere gli occhi avidamente curiosi tra gli scaffali in cerca di quel titolo che ci chiama, ci fa eco da chissà quale al di là, o tra i banchi fumosi di qualche bancarella, quel preciso, incommensurabile istante in cui il mondo scompare perché ci siamo inabissati dolcemente dentro un mondo che altro, un mondo fatto di inchiostro e colori e immagini e amori e storie e personaggi che esistono solo lì dentro e dentro i nostri occhi magici, ecco quei momenti si dilatano fino a diventare utopici e ucronici, senza luogo e senza tempo. Perché il loro e di conseguenza quello dei lettori, è un luogo che non esiste da qualche parte eppure è più vero e reale di qualsiasi luogo reale, così come il tempo ha un valore molto più pregnante, di qualsiasi ora della giornata, tanto da persistere indelebilmente nei nostri ricordi e nei nostri sogni.
Chi non ha nella sua memoria almeno un’immagine, un momento della sua vita, un paesaggio, un amore, un dolore, legato a qualche pagine di qualche libro? Noi viviamo nei libri e nello stesso tempo moriamo un po’dentro. Piccola dolce morte, sublime catastrofe, che si ripete ogni volta che si legge l’ultima parola dell’ultima riga dell’ultima pagina del libro che più di tutti abbiamo amato. Ma che ci sopravvive dentro e in qualche modo ci eleva ed eleva la nostra misera esistenza, che almeno per un istante, quell’istante ha assunto un sapore più buono, un colore più intenso, una forza più potente. Coi e nei libri ci innamoriamo, per questo sono legati alle rose, l’essenza che esalano è come quella inebriante del profumo di un petalo di rosa e uguale la loro bellezza, così come la loro fragilità. Perché un libro è fragile come tutte le cose preziose, e come tale va trattato, usandolo con estrema e devota delicatezza, perché la sua sacralità è qualcosa cui bisogna accostarsi quasi con timore reverenziale, prima di poterci prendere confidenza, e allora, solo allora, puoi farlo tuo, puoi accedere al piccolo segreto che ogni libro trattiene gelosamente nelle sue pagine e solo allora puoi dire: quel libro è mio e io appartengo a lui, fin quasi a diventare un'unica cosa, un unico mondo, una sola meraviglia, una sola bellissima storia.
Qui, nella libreria delle donne, di quali storie si poteva parlare se non di quelle di donne? Di creature fragili, forti, imprigionate in una dimensione forzata, donne sognanti, donne dubbiose, donne piegate. Ed ecco che allora le organizzatrici e le partecipanti della giornata del libro hanno letto, con vigore, bellissime pagine tratte da romanzi famosi o meno. Due racconti tratti da Jane Mansfield, l’incipit di “Abbasso le armi” di Bertha Von Suttner, scrittrice austriaca e prima donna a vincere, ne 1905 il Nobel per la pace e (come prima “scorpacciata”) un bellissimo brano tratto da “una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf, il passo che parla di Judith, ipotetica sorella di William Shakespeare che fa da emblema per tutte quelle donne che non hanno potuto dare voce alle loro ambizioni, ai loro sogni, ai loro talenti, in un mondo che ha incoronato di allori e ha spalancato le porte soltanto agli uomini. La storia della fittizia sorella del celebre drammaturgo, desiderosa di diventare scrittrice ma che finisce per suicidarsi perché sbeffeggiata dall’arroganza e superficialità maschile, serve forse a Virginia per ricordare tutte quelle “regine” mute, quelle streghe incendiate su un rogo, quelle erboriste, maghe, scrittrici nascoste nel segreto silenzioso delle loro stanze, tutte per loro, tutte quelle donne che non hanno avuto la fortuna o la forza, o la possibilità di diventare delle Emily Bronte o delle Jane Austen, ma la cui vita interiore probabilmente esorbitava potentemente, sprigionava valore da ogni poro, per quanto soffocata, schiacciata, svilita dal paradigma di una società in cui solo il maschio adulto può imporre la sua personalità e assoggettare la femmina, essere inutile e vuoto, rendendola mera addetta alla casa o ai figli, devota moglie o passionale amante, senza minimamente sforzarsi di intravedere dentro il suo sguardo abbassato la timida luce di una potenza infinita quanto quella di un fiume in piena, frenata forse soltanto dalle dighe imposte da una mentalità prettamente maschilista: “La libertà intellettuale dipende da cose materiali. La poesia dipende dalla libertà intellettuale. E le donne sono state sempre povere, non solo in questi ultimi duecento anni, ma dall’inizio dei tempi. Le donne hanno avuto meno libertà intellettuale dei figli degli schiavi ateniesi. Perciò le donne non hanno avuto uno straccio di opportunità di scrivere poesia. Per questo ho insistito tanto sul denaro e su una stanza tutta per sé”.
Un’altra lettura che ha affrontato “politicamente” o comunque da un punto di vista sociale la condizione della donna è stata quella tratta da “Ave Mary” di Michela Murgia, puntando l’accento sull’immagine della vecchiaia che viene data attraverso la pubblicità e l’iconografia della Madonna, contro quella del Cristo. Nel primo caso, a differenza dell’immagine del “vecchio” baldanzoso e ancora attivo, l’immagine della vecchia è sempre quella di una donnina in crisi perché deve stare attenta che non le vada via la dentiera dopo aver dato un morso a un biscotto, o che elargisce la sua più matura esperienza nel rendere il bucato più splendente, o che ha problemi di incontinenza o di vescica. Immagini svilenti, a volte umilianti o in ogni caso molto riduttive della complessità del mondo femminile. Nel secondo caso Murgia sostiene che mai (o comunque quasi mai) è stata rappresentata la morte di Maria, a differenza di quella di Gesù. Essa appare solo come figura straziata e contemplante la morte del figlio, oltre a divenire così anche modello inarrivabile: “la morte di Maria è stata cancellata e sottratta alla rappresentazione, cristallizzando per tutte le donne un modello divinizzato a cui nessuna può accostarsi con qualche speranza di identificazione. Nell'iconografia dominante, quella che ha fondato il nostro immaginario collettivo, la madre di Cristo ha con la morte un rapporto di sola contemplazione: è la Mater Dolorosa ai piedi della croce, icona del dolore permanente al capezzale della fine di un altro. Questo silenzioso Stabat è la pietra miliare della costruzione dell'idea di Maria come vestale afflitta e funzionale, predestinata a divenire il modello ferreo per la femminilità di quasi venti secoli. La donna ai piedi della croce non è solo l'eterna testimone della morte altrui. Una Madonna che non conosce la propria fine offre alle donne credenti un patto di mimesi insostenibile, perché stipulato con un soggetto simbolico dal corpo intangibile, sottratto al tempo e in definitiva privo di limite. Se la «Maria che non muore» rappresenta la perfezione a cui non giungeremo mai, se è lei - l'Eternamente giovane - l'obiettivo a cui tendere, significa che in questo gioco siamo destinate a perdere comunque, a meno di non ricorrere a espedienti per ridurre la distanza dal modello.”
La lettura è proseguita con un altro bellissimo passo tratto da “Mrs Dalloway”, sempre di Virginia Woolf, che ripercorre in un’unica giornata tutti i moti interiori, i ricordi di Clarissa, in un ondeggiare continuo del tempo che si mescola di passato presente e futuro in un modo che il passato irrompe nel presente e il suo presente si fa passato perché si illumina di emozioni precedenti, rivivendole come di nuovo. Il finale è un puro elogio dell’ “insostenibile bellezza dell’essere”, dell’esistere, dell’abbigliante semplicità dell’esserci, che ogni tanto, se ci pensiamo, ci lascia attoniti, stupefatti, come di fronte a un lampo che non facciamo in tempo neanche a visualizzare ma che ci abbacina, improvvisamente, irrimediabilmente: “Vengo”, disse Peter, ma rimase seduto un altro momento. Che cos’è questo terrore? Che cos’è quest’estasi? Pensò tra di sé. Che cos’è che mi riempie di una tale straordinaria emozione? È Clarissa, disse. Perché, eccola, era lì.”
Prima della conclusione la signora Fina, una delle organizzatrici dell’evento ha deliziato il pubblico con un divertente racconto scritto da lei stessa, nata a Barcellona, ma trasferitasi a Firenze, “libri y cama” e per concludere in bellezza alcune delle meravigliose pagine tratte da “Memorie di Adriano”, di Marguerite Yourcenar.
Ma tra tutte queste grandi donne è spuntato anche un grande uomo, Jorge Luis Borgues, di cui è stata letta, per rimanere in tema di fragilità e bellezza, di rarità e preziosità, di amore e passione, la sua poesia che non poteva che intitolarsi, per l’appunto, “La rosa profonda”:
“La rosa,
la rosa immarcescibile che non canto,
quella che è peso e fragranza
quella dell'oscuro giardino della notte fonda,
quella di qualunque giardino e qualunque sera,
quella che risorge dalla tenue
cenere per l'arte dell'alchimia,
la rosa dei persiani e di Ariosto
quella che è sempre sola,
quella che è la rosa delle rose,
il giovane fiore platonico,
l'ardente e cieca rosa che non canto,
la rosa irraggiungibile.”
Immagine tratta da: www.huffingtonpost.ca