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Stallo parzialmente risolto, il 10 gennaio, in Catalogna, con l'elezione a Presidente della Generalitat del giovane giornalista e sindaco di Girona Carles Puigdemont, tra i massimi esponenti di Convergenza Democratica, e del Consell Executiu, diviso al 50% tra ERC e Convergenza e con l'appoggio esterno della CUP (dei 10 deputati della Candidatura 8 si sono espressi per il sì e due si sono astenuti impegnandosi però a lasciare il seggio).
Con il passo indietro di Artur Mas, dovuto alla rigidità di parte consistente di una sinistra indipendentista spaccata oltre ogni limite al proprio interno - ma determinata ad ottenere una vittoria simbolica se non sulle politiche sociali quantomeno sul nome di Mas, perchè "non si lega un processo ad un uomo" come ha affermato la capogruppo Anna Gabriel nella sua replica al discorso d'investitura di Puigdemont - sembra così essersi superato il primo dei numerosi ostacoli che il fronte indipendentista - variegato e uscito non in grande forma dalle elezioni tanto catalane quanto nazionali - dovrà superare sulla strada dell'indipendenza.
L'accordo tra Junts pel Sì e CUP, dopo mesi di stallo (le elezioni si erano tenute il 27 settembre), è avvenuto negli scorsi giorni dopo un'incredibile assemblea della sinistra indipendentista che aveva visto 1515 delegati favorevoli all'investitura del presidente in carica e 1515 contrari ed in seguito alla decisione di Mas di convocare nuove elezioni se non si fosse raggiunto l'accordo entro l'undici gennaio.
Preoccupazione ha destato nel Sol Levante il test atomico realizzato dalla Corea del Nord (ci sono dubbi sul tipo di ordigno che le autorità di Pyongyang hanno dichiarato trattarsi di bomba H).
“Una grave minaccia per la sicurezza del nostro Paese” per il premier Abe, il quale ha anche affermato che il Giappone prenderà “decise azioni” in cooperazione Stati Uniti, Russia, Cina e Corea del Sud.
Posizione condivisa dal Presidente del Partito Democratico Okada, per il quale il test è stato “un crimine che non minaccia unicamente il Giappone ma anche la pace in Asia e nella comunità internazionale nel suo complesso”.
Nata, lo scorso 20 dicembre, l'Alleanza Civica per la Pace e il Costituzionalismo. Il gruppo, che ha tra i propri obiettivi la raccolta di venti milioni di firme contro la legislazione bellicista approvata in settembre dal governo Abe, comprende tra gli altri il sindacato Zenroren e gli Studenti per un'Azione di Emergenza per la Democrazia Liberale.
Tra le richieste avanzate dal raggruppamento civico ai partiti dell'opposizione, la presentazione di candidati unitari per il rinnovo della Camera alta nelle elezioni della prossima primavera.
La Sicilia e i suoi antichi ospiti
Riemerge dopo 2500 anni fa un “fossile” guida
La notizia è fresca e per certi versi rappresenta una sorta di “bomba” storico-naturalistica. Pochi giorni orsono, un team di specialisti e zoologi siciliani nei pressi della Foce del fiume Salso sfociante a Licata ha osservato degli ospiti molto particolari. Sono stati individuati sei esemplari, di cui tre vivi, dell’unica specie di Boa presente in Italia, il cosiddetto Boa delle sabbie o serpente proiettile. Gli esemplari sono stati attentamente studiati e il loro identikit, che verrà presto arricchito dall’analisi del Dna, è stato pubblicato sulla rivista Acta Herpetologica da Gianni Insacco, direttore scientifico del Museo di Storia Naturale di Comiso, in collaborazione con Filippo Spadola, dell’Università di veterinaria di Messina, Salvatore Russotto e Dino Scaravelli, dell’Università di Bologna.
È passato quasi un mese da quando il caccia F16 che ha abbattuto il Sukhoi Su-24 russo nella zona liminale tra lo spazio aereo turco e quello siriano ha soffocato sul nascere ogni ipotesi di grande coalizione contro il Califfato. In quella sottile striscia di cielo ad andare in frantumi è stata tutta la retorica confezionata nelle settimane precedenti dalla leadership occidentale, e dai suoi portavoce a reti unificate, sulla civiltà da opporre al barbaro alle porte. Il delirio alla fin fine rassicurante sullo scontro di civiltà è stato bruscamente ricondotto sul terreno del nudo scontro di potenza, all’interno del quale ognuno gioca la propria partita a prescindere da presunti interessi comuni a tutto “il mondo libero”, ed ognuno combatte un’assurda guerra senza che della guerra sia enunciato uno dei presupposti fondamentali, ossia il nome del nemico.
In questo quadro, una volta preso atto della scellerata spregiudicatezza delle élites di Ankara, dell’evidente impossibilità per la Francia di risolvere unilateralmente una centenaria questione di carattere globale (fatta salva l’immediata e scontata reazione dimostrativa), e della coerente ma per molti indigesta strategia russa di identificazione tra lotta al Califfato e stabilità del regime baathista in Siria, l’interrogativo più grande sul tappeto rimane l’atteggiamento degli Stati Uniti, in bilico tra la propensione ad una svolta da più parti invocata come necessaria, e lasciata intravedere nel momento dell’appeasement con Teheran, e l’ancoraggio ad uno status quo geopolitico di lunghissimo periodo.
Arabia Saudita e Turchia, in questo senso, rappresentano gli snodi essenziali delle contraddizioni occidentali. Paradossalmente, la potenza egemone risulta incapace di affrancarsi da una sorta di “patronage alla rovescia” esercitato dagli alleati minori, forti della loro debolezza e della loro sbandierata insostituibilità. La necessità di puntellare il regime del terrore saudita e gli scogli che esso frappone alla legittimazione dell’Iran come attore di primo piano della regione; l’appoggio incondizionato ad Erdogan, espresso ancora a caldo nell’ora della patente dimostrazione della sua irresponsabilità; la volontà di escludere un qualsiasi ruolo russo nel Mediterraneo, che Mosca inevitabilmente si ritaglierebbe se inserita nella coalizione anti-Califfato: tutto ciò è alla fine giunto in rotta di collisione con la proclamata volontà di lottare uniti contro l’avanzata dell’ISIS. Nonostante la retorica imperante e la solidarietà di maniera, non è detto che sia sufficiente la tragica morte di duecento persone in territorio francese, nessuna delle quali peraltro di nazionalità americana (un dettaglio che ha un suo peso), a convincere il Presidente Obama e la complessa macchina dell’Amministrazione USA a stravolgere un’inerzia geopolitica operante da più di mezzo secolo: lo ha dimostrato il recente incontro tra Obama ed Hollande, ricco di parole quanto vacuo nel profilare soluzioni concrete. Ed infatti, mentre John Kerry continua a perorare la causa di una presunta “opposizione moderata” al regime di Assad, realmente esistente, forse, soltanto in qualche sottoscala di Langley, cominciano a prender campo piani a tavolino di destrutturazione dello Stato siriano e di quello iracheno lungo linee etniche e confessionali, senza che i popoli direttamente interessati siano minimamente interpellati.
Già a seconda guerra mondiale ancora in corso il Presidente Franklin D. Roosevelt, cosciente del ruolo giocato dall’approvvigionamento petrolifero nelle guerre moderne, aveva affermato che “la difesa dell’Arabia Saudita è vitale per la difesa degli Stati Uniti”, ed alla fine del conflitto la dinastia regnante a Riad aveva concesso al Pentagono l’utilizzo della base di Damman “per dimostrare che la sicurezza dell’Arabia Saudita dovrebbe costituire un impegno vitale per entrambi i paesi”. Dagli anni Settanta in poi il legame era destinato ad intensificarsi, nel momento in cui i petrodollari accumulati a Riad in seguito allo shock petrolifero cominciarono ad esercitare una decisiva funzione di stabilizzazione della bilancia commerciale statunitense. Arabia Saudita ed emirati del Golfo sono ancor oggi i terzi finanziatori esterni del debito di Washington, dopo Cina e Giappone, grazie soprattutto all’assorbimento di ingente tecnologia militare americana. Provvidenziale per gli USA è poi il ruolo dei sauditi all’interno dell’OPEC, a garanzia dell’attuale ribasso (del resto contenuto, per non penalizzare le estrazioni in Alaska o Texas) del prezzo del greggio. Una centralità geopolitica, quella di Riad, se possibile amplificata – ancora a partire dalla fine degli anni Settanta – dalla cacciata dello Scià da Teheran e conseguente diserzione persiana dal fronte egemonizzato dagli USA.
Altrettanto paralizzante il pluridecennale abbraccio sul fronte turco, risalente allo scoppio della guerra fredda. Dal ’47 in avanti gli Stati Uniti hanno sempre fornito appoggio incondizionato a qualsiasi regime al potere ad Ankara, purché garante dell’esclusione della presenza sovietica nel Mediterraneo: i missili russi installati a Cuba e rivolti contro le coste della Florida furono non a caso giustificati dalla leadership sovietica come una risposta a quelli americani presenti in Turchia; e la crisi nucleare fu superata soprattutto grazie al simultaneo smantellamento di entrambi i sistemi missilistici. La volontà di estromettere l’URSS dal Mediterraneo aveva già condotto gli Stati Uniti ad incrociare minacciosamente con proprie portaerei le acque di Damasco nel 1958, e prima ancora (1953) ad appoggiare i piani inglesi di destabilizzazione contro il governo iraniano di Mossadeq.
Emerge, nel caos che si è cercato di descrivere, l’impotenza del Vecchio Continente, un fattore che è quasi diventato una nota a margine fissa quando si tratta di disegnare scenari geopolitici. Oggi più di ieri la radice dell’afasia pare risiedere nella mancata presa d’atto della divergenza tra gli interessi americani e quelli degli europei, che da anni ormai combattono guerre per procura, salvo poi ritrovarsi a subirne le conseguenze più spiacevoli. Nell’impossibilità di costruire una grande coalizione che, oltre a sconfiggere il Califfato, si impegni per una soluzione complessiva, pacifica e multipolare, della questione mediorientale, l’avventurismo turco e la politica patentemente filo-terrorista di Riad, imbaldanziti dall’impunità assicurata loro fino a questo momento dagli Stati Uniti, rischiano di far saltare il tabù dello scontro diretto tra le superpotenze. Al di là della retorica occidentalista, l’Europa non può davvero permetterselo.
Anche considerando, nelle elezioni regionali francesi, l’aggregato nazionale del primo turno, che ha visto le liste di sinistra e centrosinistra ottenere la maggioranza relativa con il 36% dei voti, il consenso al Front National è tale da risultare, più che un eufemistico campanello d’allarme, un vero e proprio boato: non per le sue concrete o meno possibilità di vittoria quanto per il problema democratico che rappresenta. Tale problema era del resto già evidente quando il FN veleggiava per anni sul 10-15%, o probabilmente fin da quando gli è stato concesso di presentarsi alle elezioni.
All’indomani del primo turno, con le parziali affermazioni del FN in alcune regioni, fu detto che la sinistra perderebbe “se fa la destra” – non si capisce se il riferimento è alle misure securitarie successive agli attentati di Parigi, a una imprecisata poca combattività contro i dogmi finanziari tedeschi, oppure ad entrambe.
Specularmente, il FN, oltre a radicalizzare ancor più i propri toni fascisti e razzisti come risposta al terrorismo, si è appropriato di alcune battaglie tipicamente associate con la sinistra, come l’abbassamento dell’età pensionabile o l’aumento del salario minimo.
La risposta alla controversa domanda se l’elettorato premi le proposte di sinistra discende, ovviamente, anche da una definizione del termine “sinistra”.
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