Gli accordi segreti sono stati firmati tra il 2002 e il 2010. In quel periodo, l’attuale Presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker, era primo ministro del Lussemburgo. Il fatto che il capo dell’organismo che al compito di vigilare sulla libera concorrenza in Europa abbia coperto e favorito una così ampia operazione di profit shifting costituisce un’imbarazzante caso di conflitto di interesse, nonché un nodo politico difficile da sciogliere. Complicato dal fatto che non c’è nulla di formalmente illegale: le autorità lussemburghesi si sono limitate ad applicare le regole interne.
Juncker ovviamente non si dimetterà. Non farà questo regalo agli euroscettici all’inizio del suo mandato. Si è dichiarato non responsabile dell’architettura fiscale del Lussemburgo. Ma il problema resta. E sta nella competizione internazionale tra regimi fiscali disomogenei: l’Unione Europea non ha leggi che la regolino.
Eppure la libera concorrenza è uno dei suoi pilastri fondanti dell’economia comunitaria. La presenza di paradisi fiscali porta senza dubbio a una situazione di concorrenza sleale, che danneggia gli stati, le compagnie e i cittadini, sottraendo risorse alla collettività.
La lotta alla harmful tax competition è una questione ancora aperta nel mondo globalizzato: la partita si gioca tra strategie commerciali delle multinazionali e regolamentazioni governative. In questo caso, l’Europa è di fronte a un bivio: prendere il toro per le corna e regolamentare una volta per tutte il profit shifting verso i paradisi fiscali al suo interno – e farlo a livello sovrannazionale - oppure far finta di nulla e lasciare che ogni stato decida da sé quali regole di tassazione adottare – con i risultati che LuxLeaks ha mostrato. Ecco il vero dilemma di Juncker: le dimissioni, in fondo, sono una questione di contorno.