incrinare il ruolo centrale dello Stato a cosa ci riferiamo? Al ruolo giocato da attori terzi nelle crisi di Egitto e Siria? Agli interessi economici e di sicurezza sempre più interconnessi nel mondo di oggi e nello specifico nell’area mediorientale? Ho il sospetto che questi elementi siano tutt’altro che un elemento di novità. Il cambiamento strutturale della globalizzazione è il risultato di un processo di lungo termine che si è concluso, secondo numerose letture, già ad inizio dl Novecento. Non credo che questo processo abbia eliminato d’emblée la centralità degli stati nell’arena internazionale. La globalizzazione, per usare un termine abusato, ha solamente trasformato alcune delle sfide che gli stati si trovano oggi ad affrontare.
2) A partire dalle rivolte denominate grossolanamente (indistintamente) “primavere arabe” è risultato sempre più evidente l'importanza della comunicazione e dei suoi mezzi. Particolare risalto ha avuto anche la contrapposizione delle due grandi emittenti del mondo arabo, Al Jazeera e Al Arabija, nella questione egiziana (le due emittenti erano schierate la prima a fianco della Fratellanza Musulmana, la seconda a fianco dell'esercito). A questo si aggiunge il recente “sbarco” di Al Jazeera negli USA: qual è l'effettiva capacità di incidere sugli avvenimenti e sull'opinione pubblica di queste emittenti?
I media hanno un potere enorme non solo nel caso delle “primavere arabe”. Soprattutto i media hanno tutto l’interesse ad evitare quanto più possibile un dibattito sul loro potere effettivo. Ciò detto gli avvenimenti delle Primavere Arabe si sono innescati per ragioni diverse. Distinguerei tre livelli. Al primo livello il sistema internazionale, con l’arrivo di Obama, ha subito una trasformazione, l’America ha accompagnato ad un parziale disimpegno da alcune tradizionali alleanze mediorientali (Arabia Saudita e – parzialmente – Israele) una più accentuata attenzione all’Asia Pacifico e ad un engagement con la Cina. Ad un secondo livello gli stati mediorientali e quelli europei si sono trovati privi di un elemento ordinante quale l’America è stata per anni. I disordini in Libia, che hanno lasciato spazio ad iniziative “improvvisate” come quella anglo-francese, o in Egitto, con tutte le ripercussioni che la de-stabilizzazione del Cairo ha sullo scacchiere americano, sono il prezzo che il mondo paga ad una politica incerta degli Stati Uniti. Ad un terzo livello collocherei fattori come quello dei media. Ad ogni modo il ruolo dei media nell’innescarsi delle Primavere Arabe è secondario rispetto ad altri elementi, sempre racchiudibili in questo terzo livello, come una forte divaricazione di condizione economiche tra cittadini che, per fare un esempio, è stata la ragione dell’inizio dei disordini in Siria.
3) I social network sono stati un "mito televisivo"?
Potrei rispondere “sì”? Sarebbe eccessivo, certamente si tende ad esagerarne l’importanza. Sono un elemento che ovviamente aumenta l’interconnettività globale. Un fenomeno interessante da studiare soprattutto perché l’aumento del flusso di informazioni richiede nuove modalità di protezione di questi dati, dati che significano potere e valore, anche economico. Chi se ne fa carico? Ancora una volta gli stati nazionali: ecco perché non direi che il loro ruolo è venuto meno, neppure nell’era dell’informazione.
4) In Italia la politica internazionale sembra interessare meno della cronaca rosa: il provincialismo della penisola è un luogo comune o esiste una peculiarità tutta nostra sull'assenza di interesse verso "i fatti del mondo"?
Le relazioni internazionali sono una nicchia, inutile piangersi addosso. Se c’è chi preferisce la cronaca rosa a quello che accade in Siria oggi significa che è irrecuperabile. Detto questo chi si occupa di politica internazionale dovrebbe: 1) smettere di far apparire le cose come inutilmente complicate. Chi capisce le dinamiche globali deve essere immediato a farle comprendere, anche a chi sino ad allora si è occupato solo di cronaca rosa. Se non lo fa, vuol dire che non le ha comprese fino in fondo; 2) spazzare via tutta la retorica buonista di cui le relazioni internazionali sono infarcite. La guerra esiste ed è brutta: tutti lo sappiamo. Dopodiché possiamo fare due scelte o continuare a ripeterlo ossessivamente sperando che questo cambi le cose come per magia, o indagare il perché delle guerre, la cause profonde, le ragioni razionali (che ci sono sempre). Le guerre non sono mai “stupide” come si sente dire troppo spesso e non è vero che i morti sono “inutili”: servono eccome, la storia sta lì a dimostrarlo. Solo indagando le cause profonde dei conflitti si può sperare – non direi di cambiare il mondo – ma forse di trovare delle possibili forme di convivenza o di limitazione del “male”, se mi è concesso il termine.
5) Sullo sfondo delle già citate questioni egiziana e siriana, abbiamo avuto l'avvio di nuovi negoziati tra Israele e Palestina. I rappresentanti si sono incontrati attraverso la mediazione del Segretario di Stato americano John Kerry. Nonostante i buoni propositi espressi da entrambe le parti, il negoziato ha incontrato un enorme stallo nella questione della costruzione di insediamenti per i coloni israeliani in territori palestinesi. La Palestina rischia di essere un problema irrisolto. La soluzione due stati-due popoli continua ad essere quella più utile per il consolidamento di un processo di pace? Quanto pesa oggi la questione palestinese nell'area del Medio Oriente?
Pesa ovviamente. Molto più dei buoni propositi contano però alcuni problemi: dal lato palestinese, è innegabile che vi siano, in alcuni insediamenti, condizioni di vita oltre i limiti della sopportabilità, dal lato israeliano, inutile nasconderlo, c’è un problema di sicurezza. Gli Israeliani non si fidano dell’Autorità palestinese, o meglio, sanno che difficilmente essa potrà far rispettare gli accordi presi: senza garanzie sugli accordi presi nessun accordo sarà mai possibile: provate ad accordarvi con una banca per l’erogazione di un prestito, senza garanzie sulla restituzione difficilmente vi sarà concesso. Il Dafah Institute ci dice che oggi l’84% degli israeliani ritiene che un ritiro unilaterale dai territori non porterà la pace con i palestinesi. Ancora più interessante notare che, prima che l’Onu riconoscesse lo status di “osservatore” all’Autorità Palestinese, quella percentuale era del 64%. I buoni propositi, financo se espressi dall’Onu, non porteranno mai la pace. Il problema per Israele è il seguente: trovarsi una seconda Gaza in Cisgiordania come conseguenza diretta della nascita dello stato palestinese. Cosa significa questo in termini pratici? Un terrorista dalle colline adiacenti l’aeroporto Ben Gurion con un lancia-missile a spalla RPG potrebbe agevolmente tirare giù un volo di linea della El Al. Questa realtà pesa molto più delle buone intenzioni di John Kerry, se si parte da qui forse si può trovare una soluzione. Se si sceglie di partire dalla retorica sulla pace in medioriente ho forti dubbi e ci sono oltre sessanta anni di storia recente ad avvalorare questi dubbi.
Immagine tratta da: www.foreignpolicyblog.com