Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all'arte in tutte le sue forme.
Nell’olimpo dei grandi poeti della musica popolare nordamericana insieme a Bob Dylan e Neil Young, Leonard Cohen ha rappresentato il lato più esistenzialista ed introspettivo della grande tradizione cantautorale. Laddove in Dylan il conflitto è fra un popolo di ultimi e reietti contro una società spietata ed emarginante e in Young fra la compagna, simbolo di pace e armonia, e l’urbanizzazione modernista espansionistica e crudele, in Cohen il conflitto è tutto interiore all’essere umano, ai suoi turbamenti religiosi e morali, alle sue contraddizioni e paure, alle sue pulsioni, ai suoi desideri, alle scelte sbagliate e ai rimorsi come ai ricordi felici e agli incontri inaspettati.
Il nuovo Popular Problems esprime al meglio la filosofia coheniana e vive delle immagini prodotte dalle sue parole, un microcosmo di dolori, gioie, speranze, delusioni. Tutti stati d’animo personali che in Cohen acquistano però sempre una dimensione collettiva, finendo per esprimere in fondo quelli che sono i problemi che condividiamo e ci accomunano con tutti gli altri. La grandezza di Cohen sta proprio nell’universalizzare in questioni metafisiche e morali, situazioni individuali.
Quando nel 1986 il sociologo tedesco Ulrich Beck conia l’espressione di “società del rischio” già il mondo viveva da diversi decenni in un contesto di crescente incertezza e angoscia rispetto al destino dell’umanità: genocidi, armi di distruzione di massa, crisi economiche avevano fortemente messo in discussione l’ingenua e superficiale fiducia nel progresso e nella crescita del livello di sicurezza individuale e collettivo.
Anche stavolta l’istituto Stensen propone a Firenze un incontro di grande interesse e attualità. L’idea è quella di parlare di medio oriente e di mondo islamico al di là dei luoghi comuni e delle facili semplificazioni. Per adempiere a questo difficile compito sono stati invitati due esperti sul tema: Emma Bonino, leader storico del movimento radicale e Domenico Quirico, giornalista de La Stampa e autore di “Primavera Araba”.
Dal 2007 Firenze ha il suo festival di musica elettronica. Il NEXTECH, ha portato nel capoluogo toscano alcuni dei più celebrati artisti contemporanei, imponendosi rapidamente come uno dei punti di riferimento in Italia per la divulgazione delle arti digitali.
Anche quest’anno, dall’11 al 13 settembre, Musicus Contentus ha organizzato un programma di tutto rispetto. Spiccano nella line up artisti internazionali quali Noisia, Ben Sims e Gary Back mentre fra gli italiani figurano artisti fiorentini come Ckrono & Slash e Draft b2b Teo Naddi anche se il più conosciuto è indubbiamente il sempre istrionico marchigiano Ganji Killah qua in duetto con la giovane Rayna.
Non sono poche le band storiche che pur avendo perso energia, vitalità, creatività e ispirazione, ancora continuano imperterrite a produrre musica e a fare concerti. Talvolta per passione, talvolta per ragioni economiche. Molto spesso per un comprensibile connubio di entrambi gli elementi.
Prendiamo i Blondie. Una dozzina di dischi attivi alle spalle, una carriera sfolgorante iniziata subito col botto, sui solchi di quel omonimo disco di debutto che ha lanciato Debbie Harry come una delle icone rock più sexy di sempre, un successo di vendite immenso soprattutto dopo che il garage rock degli esordi ha lasciato il posto a una dance sempre più appetitosa per il mercato mainstream, un posto d’onore nella rock’n’roll hall of fame, una carriera che si era conclusa in maniera più che onorevole nell’82 con “The Hunter”, quando erano ancora campioni di vendite ma allo steso tempo cominciavano ad accusare una certa stanchezza compositiva.
Raggiungiamo per e-mail Sara, attivista di Occupy Gezi e impegnata nel variegato movimento antigovernativo turco, sempre in prima linea sin dalle prime manifestazioni in piazza Taksim a difesa del parco Gezi e fra coloro che durante i violenti scontri con la polizia portava soccorso ai feriti.
È passato più di una anno dalle prime manifestazioni in difesa del parco Gezi. Quale è attualmente la situazione del movimento di protesta antigovernativa? È ancora uno spontaneo network di ONG o sta diventando più organizzato e strutturato? Ritieni che il movimento nel suo complesso sia oggi più forte o piuttosto che sia stato indebolito, soprattutto a causa delle feroce repressione delle forze dell’ordine?
Lo scorso 31 maggio le elezioni comunali celebrate in Islanda hanno visto l’ennesima affermazione della destra xenofoba e nazionalista del Framsóknarflokkurinn (letteralmente Partito Progressista) che col suo 10,7% dei consensi si è aggiudicata due dei 15 seggi che compongono il Consiglio Comunale di Reykjavik, ottenendo per la prima volta rappresentanza nella capitale dal 1974.
Il suo esordio omonimo due anni fa aveva diviso l’opinione pubblica, almeno quella italiana: geniale, innovatore e ricchissimo di suggestioni per gli entusiasti; prolisso, estenuante, eccessivamente barocco per i detrattori. Alla fine però tutti hanno fatto il suo gioco: di Anna Calvi se ne è parlato eccome, almeno in ambito indipendente, tanto che tutto l’hype sollevato l’ha resa ben presto un piccola star underground.
In un contesto così favorevole, Anna Calvi ha avuto buon gioco a far parlare di sé ancor prima che il suo secondo lavoro uscisse, generando una certa curiosità sugli sviluppi della sua carriera artistica.
Prima ancora che la scena musicale alternativa di Montreal emergesse in tutta la sua dirompenza, Toronto aveva già il suo punto di riferimento nei Broken Social Scene, collettivo di 19 membri dedito a un rock orchestrale avanguardistico e suggestivo.
A volte delicati e aggraziati, a volte dirompenti e caotici, i Broken Social Scene rappresentano una delle band che meglio riassume la peculiarità del rock canadese: lontani dagli atteggiamenti da poser dei loro colleghi a stelle e strisce, amanti di un musica che proprio nella sua complessità, vuole restituire la naturalezza di una fare arte prima di tutto per passione e fra amici, risultano, come e forse ancor di più degli Arcade Fire, i principali fautori di un approccio orientato alla ricerca della melodia percorrendo la strada più difficile, quella dell’esperimento e della contaminazione continua. You forgot it all people (2002), con le sue strutture insolite e stravaganti, sebbene meno celebre, ha la stessa importanza di Funeral, imponendosi fra i principali album alternativi dello scorso decennio.
2003. Dopo oltre due anni di travagliata esistenza e di ripetuti cambi alla line up, finalmente esce il primo EP di una oscura band di Montreal, nata grazie all’ incontro in una galleria d’arte fra lo studente Win Butler con Régine Chassagne, perfomer di musica medievale e jazz. La loro storia d’amore diventa anche il nucleo centrale attorno al quale si forma uno dei gruppi più significativi del decennio passato: gli Arcade Fire. Ci vorrà un altro anno prima della pubblicazione del loro primo album sulla lunga distanza, il già classico Funeral (2004), pietra angolare della musica indipendente dello scorso decennio e punto di riferimento imprescindibile per una nuova generazione di artisti canadesi non allineati nella infinita guerra fredda fra USA e UK. Funeral imprime
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