Tutto ciò che è sociale ma non riflessione sociologica, legandosi a quello che compone la realtà in cui viviamo.
Immagine liberamente tratta da upload.wikimedia.org
Non vedo contraddizione nell’essere stati tutti Charlie Hebdo e nell’essersi indignati per le vignette satiriche sul terremoto. Al di là che trovi abbastanza retorico e anche ipocrita “l’essere questo e quest’altro”, dato che, o lo si fa per qualsiasi vittima nel mondo, o non ha senso farlo selezionandone alcune, credo che la partecipazione emotiva per quello che avvenne ai giornalisti della redazione satirica avesse un significato molto forte, giusto e sentito: difendere il diritto ad esprimersi, il diritto alla libertà di parola, di opinione, di pensiero, di critica e, anche, di satira. Forse, a ripensarci meglio, proprio per questo, in quel caso, il “je suis Charlie” aveva già più senso di tutti gli altri “je suis” che si sono succeduti ad ogni strage (occidentale), perché in quel caso Charlie era il simbolo di un’entità, di un valore universale che va al di là delle singole vittime, ovvero la libertà di espressione, che non ha nazionalità né sesso né colore, ma che appartiene, o dovrebbe appartenere, al mondo intero e che il mondo intero dovrebbe rivendicare, quindi in quel caso, davvero tutti, potevamo essere Charlie, se a Charlie diamo quel significato astratto.
“La campagna non è piaciuta? Ne facciamo una nuova. #fertilityday è più di due cartoline, è prevenzione, è la #salute degli italiani” scrive così la Ministra della Salute Beatrice Lorenzin.
Eppure, le critiche alla scelta di istituire il Fertility Day hanno riempito pagine di giornali e social network. Fiumi di parole sono stati utilizzati per spiegare che non è semplicemente la campagna a non essere piaciuta. Non sono, dunque, le due cartoline a essere andate di traverso, ma è il Piano nazionale della fertilità del Ministero della Salute: “Difendi la tua fertilità, prepara una culla per il tuo futuro” con la sua retorica.
di Daniele Coltrinari e Luca Onesti
Diario di Una Volta 2016 - Un pomeriggio brasiliano, ma non troppo e un gregario diventato campione
Setúbal, 6 agosto 2016
Oggi siamo a Setúbal, a seguire la penultima tappa della Volta 2016. È inusuale, negli ultimi anni, che la Volta a Portugal (il più importante giro ciclistico a tappe portoghese) raggiunga queste latitudini a sud: la regione dell’Alentejo torna ad essere toccata dal giro ciclistico dopo 8 anni, mentre Setúbal, che quest’anno è anche Città Europea dello Sport 2016, ha dovuto aspettare 45 anni per rivedere un arrivo di tappa, era dal ’71 infatti che la Volta non arrivava qui.
di Daniele Coltrinari e Luca Onesti
Diario di una Volta 2016 - Covilhã e la tappa “rainha”
Covilhã, 2 agosto 2016
Anche nel 2016, come nel 2015, alloggiamo qualche giorno a Covilhã, poiché, oltre a essere una bellissima cittadina, è strategicamente comoda per raggiungere il traguardo della tappa “rainha”(regina) prevista domani con arrivo a Guarda (dista da Covilhã circa 50 chilometri) e con partenza da Belmonte. Una prova di circa 170 chilometri che passerà per ben due volte ad Alto da Torre, il punto più alto del Portogallo continentale (circa duemila metri di altitudine) situato in cima alla Serra da Estrela, il maggior gruppo montuoso lusitano. C'è stata un po' di contestazione da parte di alcuni tifosi e giornalisti, quest'anno, quando è stata presentata la Volta a Portugal 2016 e si è scoperto che la tappa “rainha” non sarebbe terminata ad Alto da Torre. Per molti di loro, questa novità renderà questa prova meno spettacolare. E non hanno tutti i torti, anzi, perché generalmente la tappa “reinha” termina proprio ad Alto da Torre, rendendola una tappa unica, dove i più forti corridori che lottano per la classifica generale si sfidano, scattando in salita, diversi chilometri prima dell'arrivo.
di Daniele Coltrinari e Luca Onesti
Diario di una Volta 2016 – prima e dopo Nossa Srª da Graça, c'è un duello portoghese-gallego. E ora si aspetta la tappa “rainha”
Se nella prima e precedente puntata del Diario di una Volta 2016, la trovate qui: vi abbiamo parlato della bellezza e della particolarità della tappa con l'arrivo nei pressi del Santuário de Nossa Senhora da Graça. È bene adesso raccontare un po' della cronaca sportiva e per farlo, è necessario fare un passo indietro. Sabato 30 luglio, si è disputata la terza prova della Volta a Portugal (la più importante competizione ciclistica a tappe portoghese che seguiamo quest'anno per la quarta volta consecutiva) di circa 160 chilometri che vedeva la partenza da Montalegre e l'arrivo a Macedo de Cavaleiros. Alla fine della prova si è aggiudicato la vittoria, dopo una lunga fuga, l’australiano William Clarke della squadra ciclistica Drapac, che ha battuto in volata l'italiano Marco Frapporti dell'Androni Giocattoli - Sidermec. I due corridori hanno tagliato il traguardo con un vantaggio intornio ai 50 secondi su un gruppetto di inseguitori, dove c'era anche il portoghese Rui Vinhas, della formazione W 52 - FC Porto, un gregario, uno di quei ciclisti che deve aiutare Gustavo Veloso, ciclista gallego e suo compagno di squadra nella W 52 - FC Porto e già vincitore della Volta a Portugal nel 2014 e nel 2015, a vincere anche quest'anno.
Gustavo Veloso, favoritissimo per la vittoria finale (in C'era una Volta in Portogallo, abbiamo scritto anche su di lui) ha tagliato il traguardo insieme al gruppo generale con quasi cinque minuti di distacco dal vincitore della tappe e con oltre tre minuti di ritardo sul suo compagno di squadra e gregario, Rui Vinhas. Morale della favola: Rui Vinhas si è ritrovato in Camisola Amarela (la maglia galla che indossa il leader della classifica generale) e Gustavo Veloso in nona posizione con un ritardo di 3 minuti e 45 secondi circa, dal suo compagno-gregario. E ora?
Domenica 31 luglio, quarta tappa della Volta a Portugal 2016, Bragança – Mondim de Basto con arrivo a Nossa Srª da Graça
È la tappa che ogni anno aspettano tutti gli appassionati di ciclismo in Portogallo, è una festa, una giornata dalle emozioni uniche e che abbiamo raccontato in maniera approfondita nel nostro libro C'era una Volta in Portogallo. Generalmente capita la prima domenica d'agosto, stavolta a fine luglio e si parte da Bragança, per raggiungere, dopo circa 190 chilometri Nossa Srª da Graça a quasi 1000 metri di altezza, dopo esser passati qualche chilometro prima, durante il percorso, nella cittadina di Mondim de Basto e aver scalato la salita del monte Farinha.
È Gustavo Veloso a vincere la tappa, il gallego è il grande favorito per la vittoria finale, come già scritto in precedenza e che oggi si aggiudica una tappa seguitissima alla televisione e per strada dai tifosi. Veloso batte in volta Jóni Brandão della Efapel e Daniel Silva della Rádio Popular-Boavista e recupera anche dei secondi di distacco dal suo compagno di squadra Rui Vinhas che rimane comunque in Camisola Amarela, mentre Veloso è ora secondo nella classifica generale con un distacco di due minuti 48 secondi.
E ora? Ora si aspetta la tappa “rainha”. Cos'è? Ve la spieghiamo nella prossima puntata del Diario di una Volta 2016
Daniele Coltrinari e Luca Onesti hanno pubblicato C'era una Volta in Portogallo edito da Tuga Edizioni con la prefazione di Marco Pastonesi, giornalista e scrittore, già editorialista della Gazzetta dello Sport.
Il libro è un racconto sportivo e non solo, del giro ciclistico portoghese: storie, protagonisti, cronache, tradizioni, feste popolari, luoghi, gastronomia, costumi, avventure e curiosità di una competizione unica.
Trovate maggiori informazioni su www.ceraunavoltainportogallo.wordpress.com
Foto di Luca Onesti
Il discorso pubblico - da bar piuttosto che da università - intorno all'Islam occupa oggi uno spazio quotidiano nelle nostre vite. I presupposti di partenza sono per ognuno di noi, ovviamente, differenti. Se appare chiaro quanto viene propagandato, riscuotendo indiscutibile consenso, da una certa destra (più muri, più chiusura, richiamo al concetto “un popolo, una fede”) più complesso, e spesso manchevole, è il “nostro” discorso. Vi è, infatti, a sinistra ma anche tra i semplici liberali, un “detto” e un “non detto” insopportabile.
Premesso, con ogni evidenza, che non si può - e non si deve! - utilizzare l'armamentario ideologico della destra, occorrerebbe tenere a mente che, come diceva Lenin: “i fatti hanno la testa dura”.
Un confuso senso del multiculturalismo impedisce spesso di denunciare la natura oppressiva che la religione islamica (in sé, per ciò che viene mostrato e dunque è, al di là di un'improvvisata difesa della purezza teologica che, quando fatta da atei, appare anche ridicola) esercita su milioni di uomini e, soprattutto, di donne.
Tutte le religioni, in particolare quelle monoteistiche esercitano forme di oppressione su minoranze sessuali, sul genere femminile etc. Tutte le religioni, in particolare quelle monoteiste, prese dalla loro smania di convertire il mondo, portano con sé un sottofondo di violenza.
Lo fa, lo ha fatto, anche il cristianesimo. Alla religione di San Paolo e di Costantino è stato però imposto un limite alla sua, istintiva, sete di predominio e di organizzazione della società. I ferventi cattolici individuano questo limite nel messaggio di umiltà e di non violenza propagandato dal Vangelo. Toccando soltanto ai margini la teologia (che è materia seria, anche se “cerca in una stanza buia un gatto nero che non c'è”) ed addentrandosi nella storia, vi è una risposta più plausibile alla limitazione che è stata imposta (non autoimposta, ma imposta dall'esterno) al cristianesimo nelle società europee.
Da un lato la scissione protestante ha svolto, per il suo stesso esistere, un ruolo indiscutibilmente liberatorio (potremmo dire progressista in senso lato). La presenza di più “cristianità”, di fedeli aderenti a varie chiese ma tutti cittadini (anche di appartenenti a classi agiate e persino dei principi) ha fatto sì che gli Stati (ancora oggi i più laici del Continente) nei quali la Riforma ha più preso piede si ponessero come arbitri. Ciò ha generato una separazione tra lo Stato (ed i suoi valori) e le Chiese capace di far sorgere uno “spazio pubblico” più libero del precedente.
Il secondo aspetto storico è l'immensa fiaccola civilizzatrice che a partire da Parigi ha illuminato il mondo intero. La Rivoluzione Francese è il fondamento valoriale di tutte le grandi dottrine che governano o hanno governato le nostre società (tanto quelle liberaldemocratiche quanto quelle socialiste). Il principio dell'uguaglianza formale, il diritto alla scalata sociale, la netta separazione tra gli spazi privati (nei quali è stata confinata la religione) e quelli pubblici, sono stati il basamento sul quale si sono poi edificati nuovi diritti (civili o sociali).
I Paesi nei quali l'islam è nato, e nei quali è stato a lungo confinato, prima dei processi migratori verso l'Europa, non hanno vissuto quel processo rivoluzionario passando spesso direttamente dal feudalesimo (anche religioso) ad una modernità vissuta spesso come imposizione del colonialismo (cosa che è in parte anche stata) occidentale e dunque come un male da respingere.
Ma vi è di più. La mancata separazione tra il livello politico (la gestione e l'organizzazione della società) e quello religioso affonda, nell'islam, le proprie radici nella stessa dottrina di quella fede. Se si guarda, infatti, alla sua nascita, non si può non vedere la totale identificazione tra il livello politico (rappresentato dal capotribù Maometto, fondatore di una comunità basata non su vincoli di sangue ma sulla comune appartenenza di fede) e quello religioso (rappresentato dalla stessa persona fisica). Una identificazione che è stata pressoché inscindibile per alcuni secoli (almeno fino all'ultimo dei “Califfi ben guidati”).
Si dirà che da quella unione totale sono passati alcuni secoli ma non si può allo stesso modo sostenere che la volontà di corrispondenza assoluta tra il potere politico e l'autorità religiosa non abbia nell'islam un suo fondamento dottrinale. E' stato, quello, un lascito talmente profondo che molti degli ordinamenti, anche di Paesi laici ma a maggioranza mussulmana, sono stati influenzati dalla sharia; un lascito talmente intenso che i diritti (in gran parte simbolici) di guida religiosa dell'ultimo sultano della Sublime Porta, sono stati aboliti soltanto negli anni '20 dello scorso secolo.
Chi si fa dunque portatore di questa interpretazione rigida (non deviata, si badi bene, semplicemente rigida e non disposta a patti con la modernità) dell'islam non può essere definito unicamente un matto, anche se vi è indiscutibilmente la presenza di disturbati psichici nelle fila dei terroristi. Non sono quindi - soltanto - matti e non possiamo noi - atei - dire cos'è il vero islam. Questi terroristi sono islamici in quanto si definiscono tali ed interpretano alla lettera (sono quasi “più mussulmani”) il corano facendosi portatori di concetti appartenenti pienamente alla dottrina islamica. Chi viene affascinato da queste interpretazioni rappresenta sicuramente una minoranza del mondo sunnita (anche se i simpatizzanti di tali teorie sono sicuramente milioni) ed i massimi esponenti teologici dell'islam (in primo luogo l'Università al-Azhar) hanno espresso una chiara condanna, non da oggi, di tali interpretazioni definendole non autentiche. Ciò nondimeno queste teorie non sono esterne all'islam, ne fanno parte a pieno titolo ed i suoi sostenitori, se fanno professione di fede e se rispettano i cinque Arkan al-Islam (unici criteri - in mancanza di un'autorità teologica unica in grado di "scomunicare" i fedeli che si allontano dai propri insegnamenti - per definirsi fedeli islamici), non possono vedersi sottratta la patente di islamici in nome del politically correct.
Vi è però - dato che la maggioranza degli islamici che abitano le nostre società sono poveri o comunque lavoratori dipendenti (e dunque potenzialmente rappresentabili da chi si schiera a sinistra) - un giustificazionismo, anche teologico, una difesa pro domo altrui che non tiene conto della massima “occorre elevare la coscienza delle masse, non adeguarsi ad essa”.
Si ci scaglia con una forza incredibile (e pienamente giustificata) se un Bagnasco qualsiasi dice qualcosa contro gli omosessuali ma, spesso, si tace se posizioni simili vengono espresse da un rappresentante della comunità islamica. Si fanno parallelismi acrobatici tra le affermazioni di qualche odioso esponente politico e chi, oltre ad affermare, uccide (vi sarà pure, per onestà intellettuale, una differenza tra querelare un vignettista e sgozzarlo?).
Altra affermazione che tenta di allontanare i propugnatori di tale dottrine dal “vero islam” è quella secondo la quale la maggioranza delle vittime di quella cieca violenza siano mussulmane. Ciò è assolutamente vero, ma non toglie nulla alle motivazioni che spingono quegli uomini ad agire e che dunque attribuiscono la qualificazione ideologica di quella violenza.
Per dirla meglio: la maggioranza delle vittime della mafia sono siciliane. Si può, senza incorrere nel ridicolo, sulla base di questo assunto, affermare che la mafia sia un qualcosa di esterno alla Sicilia?
La maggioranza di quelle vittime, per altro, sono sì mussulmane ma “mussulmane sbagliate”: appartengono cioè allo sciismo duodecimano (o alle sue innumerevoli filiazioni) e sono dunque dei “kafir”, che vanno colpiti come e quanto i cristiani.
Un'altra delle tesi giustificazioniste tenta di attribuire, in toto, la nascita e la crescita di questi movimenti all'imperialismo. Occorre qui far chiarezza: l'imperialismo ha storicamente un ruolo, ed una colpa incancellabile, nell'aver coccolato questi gruppi (ora contro i sovietici, ora contro i russi od i cinesi) ma non ha fatto nascere questi movimenti.
L'Arabia Saudita, grande madre ideologica di costoro, è sorta anche grazie al contributo dell'imperialismo britannico che, in funzione anti-ottomana, ha appoggiato il wahabismo ma il wahabismo non è stato creato dai britannici a Londra: esisteva già.
Non si tratta dunque di singoli matti o di marginali sociali (ci sono anche quelli): si tratta di un fenomeno pienamente religioso e pienamente islamico. Per convincersene ancora meglio un altro elemento di riflessione è dato dalla presenza di tali gruppi unicamente nell'islam sunnita. Perché essi esistono tra i sunniti e non tra gli sciiti? Perché nello sciismo è l'ultimo imam (in quello maggioritario il dodicesimo) a poter invocare il jiahad. Dato che da un migliaio di anni, l'ultimo imam si è “occultato” (si, secondo la dottrina non è morto) e solo alla fine dei tempi compirà la parusia possiamo star tranquilli sul fatto che gli sciiti non provocheranno guerre sante. Al contrario, nel sunnismo, la umma (tutta la umma, prescindendo dagli Stati nazionali) può essere guidata da chi ne abbia le capacità ed abbia seguito e costui può anche invitare alla conquista.
In conclusione quella che è in corso non è una guerra di religione (il miliardo di mussulmani del mondo ha ben altri problemi a cui pensare) ma è sicuramente una guerra religiosa e la si combatte anche lottando per una riduzione del potere delle religioni (tutte, anche quella islamica) sulla società, sulla politica, sul nostro vivere quotidiano: senza ambiguità, ipocrisie o giustificazionismi.
Il Becco è una testata registrata come quotidiano online, iscritto al Registro della Stampa presso il Tribunale di Firenze in data 21/05/2013 (numero di registro 5921).