Tutto ciò che è sociale ma non riflessione sociologica, legandosi a quello che compone la realtà in cui viviamo.
Immagine liberamente tratta da upload.wikimedia.org
Ecco, detto questo, credo che non sia comunque sufficiente intravedere nel basso livello di cultura, i motivi che hanno spinto gli abitanti di Goro e Gorino a costruire le barricate per impedire l’arrivo delle dodici donne, così come non riesco ad addurre quell’azione soltanto al clima di esasperazione generale e alla propaganda xenofoba di cui accennavo prima, per quanto entrambe rappresentino una componente parecchio significativa. Secondo me davvero, in questo caso dobbiamo leggerlo anche come uno specchio del fatto che una parte del nostro paese stia cominciando a legittimare e a dare per scontata una forma di male che sembra debba essere fatto, che è giusto sia fatto in nome della “rispettabile voce della società” poiché il non commetterlo o il non fare niente per sventare il pericolo rappresentato dall’altro straniero, costituirebbe una minaccia o un attacco alla società stessa, alla propria comunità, così che, inteso in questo modo, il male, non è più riconoscibile o bollabile come male, ma appunto come dovere. Gli abitanti di Goro e Gorino si sentivano come dei rivoluzionari, che agivano in difesa della libertà e della “buona società”.
Qualcuno li ha definiti eroi, quel centinaio di cittadini di Goro e Gorino che hanno costruito delle barricate di pancali per “resistere” all’“invasione” di dodici donne straniere (a cui poi si sarebbero dovuti aggiungere otto minori) che avrebbero dovuto esser ospitate nell’ostello di Gorino – l’Amore-Natura, di proprietà della provincia di Ferrara. L’Italia, che ha conosciuto la resistenza di partigiani che lottavano per la libertà dal nazi-fascismo contro le ingiustizie e le discriminazioni, ha visto, attraverso questo amarissimo specchio rappresentato dalla maggior parte della comunità di Goro e Gorino, una resistenza che porta con sé un significato totalmente ribaltato rispetto a quella partigiana: la difesa del proprio piccolo pezzo di orto contaminata dal razzismo più barbaro e becero.
Educazione strumento di democrazia – brevissima (ed incompleta) storia del dibattito contro la partecipazione democratica in Italia
La democrazia è il popolo. La scheda elettorale e l’apparato per votare non significano automaticamente l’esistenza della democrazia
Thomas Sankara
[1]
Nel primo decennio del Novecento, in Italia si discute dell'allargamento del corpo elettorale; interessi diversi premono per ampliare il numero di cittadini (maschi, ovviamente) a cui estendere il diritto di voto, che è ancora considerato esercizio di una capacità e non diritto soggettivo.
Pubblichiamo qui di seguito uno scambio avvenuto tra Mauro Lenzi e Paolo Favilli sulle colonne de Il manifesto convinti che possa essere da stimolo per una riflessione più generale.
L’articolo di venerdì 21 ottobre di Paolo Favilli pubblicato sul manifesto (La sinistra e l'inedita questione sociale dei nostri tempi), purtroppo alla fine, introduce la necessità di un approccio al dibattito che consideri che “Oggi la ‘questione sociale’ si manifesta anche con tratti che “...nella…” storia non sono mai stati presenti. La nostra comprensione di questo nuovo (sottolineatura mia) è possibile solo se ragioniamo in termini di fasi di accumulazione di capitale, in particolare se ragioniamo sui caratteri dell’odierna fase di ‘accumulazione flessibile’. Qui stanno le radici analitiche di cui abbiamo bisogno.”
Mi pare un approccio promettente. Purtroppo, ripeto, arriva alla fine dell’articolo e la necessità di sintesi mi ha penalizzato in una comprensione più ampia: che si intende per "accumulazione flessibile"? Ho la sensazione che Favilli dia un significato importante a questo termine, addirittura dirimente. Probabilmente nella pubblicistica il concetto è da tempo e ripetutamente chiarito e esplicitato ma, per mia ignoranza, non ne sono edotto. È possibile da parte di Favilli fare un altro pezzo di approfondimento in grado, secondo me, di aprire ulteriori spazi al dibattito? Appunto, altro rispetto ai ‘balletti’ giustamente redarguiti di Favilli.
***
Caro Lenzi,
hai perfettamente ragione, la necessità di sintesi ha portato a considerare scontate questioni che non lo sono per niente.
L'espressione "accumulazione flessibile" è del geografo inglese David Harvey, uno dei più importanti studiosi delle tendenze odierne del capitale. La fase indicata con quell'espressione non si contrappone alle tendenza generali di accumulazione del plusvalore, ma le modella a seconda delle forme che il contesto rende possibili. In un certo senso il capitalismo di ogni fase è sempre un "nuovo" capitalismo.
Le possibilità odierne di comprimere ed interconnettere a velocità crescente e sempre più profondamente le dimensioni dello spazio e del tempo, aprono ad un'ampia gamma di forme di flessibilità. Quelle più evidenti riguardano il mercato del lavoro che assume una struttura centrale sempre più ristretta di occupazione stabile e, via via che ci si allontana dal centro, sempre più ampie cerchie di lavori temporanei, subappaltati in una catena lunghissima di delocalizzazioni. Questa struttura del mercato del lavoro permette di combinare modi altamente tecnologici di estrazione del plusvalore e modi antichi. Infatti nella sfera centrale del mercato, dove è collocata una forza lavoro estremamente specializzata e con una capacità di comprensione e gestione delle nuove modalità tecnologiche e di orientamento al mercato, l'acquisizione di plusvalore non è direttamente legata alla durata della giornata lavorativa. Via via che si scende nella catena della flessibilità di assiste alla diffusa rinascita di sistemi di lavoro in cui è possibile estendere l'orario della giornata lavorativa e forme di sfruttamento sul modello dell'accumulazione originaria.
Inoltre l'abnorme finanziarizzazione dell'economia permette non solo un'accumulazione che non passa attraverso la produzione di merci, e quindi di lavoro, ma è anche un'ulteriore, ed assai importante, spinta alla velocizzazione dei tempi di tutte le forme di flessibilità.
Ecco, a mio parere, questo insieme problematico deve essere al centro tanto della riflessione che dell'iniziativa politica della nostra sinistra. Non è un compito facile, ma al di fuori di questo percorso, che non avrà tempi brevi, si perde davvero il senso della politica per chi intende davvero essere l'erede della storia del movimento operaio.
Di carcere in Italia si parla sempre troppo poco. È raro che le condizioni, gli avvenimenti e la gestione del sistema carcerario risalgano la china della cronaca quotidiana (eccezion fatta forse quando a pronunciarsi e l’Unione Europea) ed ancora più raro è che si parli delle difficoltà che deve fronteggiarsi chi deve o decide di confrontarsi con questo.
Non una di meno
Verso la mobilitazione nazionale delle donne contro la violenza di genere
In Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa e nell'ottanta per cento dei casi il colpevole del femminicidio è il suo partner. In Italia sono 6.788.000 le donne che, nell’arco della loro vita, subiscono un abuso fisico e\o sessuale: una donna su tre. I dati Istat del 2015 per quanto aberranti mostrano solamente la punta dell'iceberg: infatti non possono rilevare gli abusi non dichiarati, le violenze di genere non denunciate. Totalmente consce dello spettacolo desolante, del vuoto culturale che le circonda, viste ancora le numerose rimostranze che mostra da più parti in questo Paese (“a cosa serve chiamarlo femminicidio? La parola omicidio comprende già i morti di tutti i sessi!") e certe che l'argomento vada analizzato attentamente per trovare gli strumenti utili a decostruirlo, in molte si sono date appuntamento, lo scorso 8 ottobre presso l’aula della Facoltà di Psicologia della Sapienza di Roma, nell'ambito del percorso che porterà alla manifestazione nazionale del 26 ottobre a Roma ed alla giornata di approfondimento di domenica 27 novembre. L’incontro, aperto dalle tre realtà promotrici: la rete IoDecido, D.i.Re-Donne in rete contro la violenza (che riunisce più di 77 centri antiviolenza in tutta Italia) e Udi (Unione Donne in Italia), ha visto la partecipazione di oltre 500 donne ma anche parecchi uomini. Donne diverse, e di diverse generazioni ma con la stessa voglia di confrontarsi per tracciare un cammino comune che aiuti ad affermare l'assoluta serietà della questione violenza di genere nel nostro Paese.
“Non una di meno”, questo il nome dell'iniziativa, richiama le lotte delle donne argentine che, proprio in coincidenza con l’assemblea romana, hanno dato avvio, in oltre 50000, al loro incontro nazionale a Rosario, per rilanciare la campagna “Ni Una Menos”, e che sono scese in piazza, il 19 ottobre, proprio con questo grido per commemorare Lucia Perez, la sedicenne drogata, violentata per ore e impalata.
Un susseguirsi di interventi ha messo in luce che in politica il “rosa” non basta, serve invece il contributo intellettuale, il pensiero aperto e lucido che trova nel femminismo la sua principale radice. Un momento per narrare delle loro vite, della stanchezza di essere vittime, della rabbia e della libertà. Un confronto aperto e libero, un'occasione per rivedersi, scambiare opinioni, esperienze ed idee. L'obiettivo è chiaramente alto e l'auspicio è che sia dalla convocazione nazionale che dalle due giornate romane, del prossimo novembre, nasca un nuovo slancio politico che riunisca le donne su obiettivi comuni urgenti.
L'auspicio è, nei fatti, che si dia avvio ad un percorso costituente di un piano femminista contro la violenza sulle donne e per l'autodeterminazione e la libertà femminile. Occorre, dunque, che si ridia importanza e che si ridefiniscano i contenuti della, ormai troppo rituale, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Per tale ragione il 26 novembre sarà presentato il "piano delle donne femministe contro la violenza di genere" (ed il giorno successivo si darà vita ai tavoli tematici di discussione sullo stesso).
Preso atto (ma se ne è veramente preso atto?) che la violenza non è fatto privato ma è un fenomeno complesso e stratificato (spesso sostenuto da politiche istituzionali, educative, sociali ed economiche non all'altezza e dalle narrazioni distorte da parte dei media) occorre che il tema della violenza degli uomini sulle donne sia affrontato mediante un cambiamento culturale radicale: rifuggendo da strategie securitarie od emergenziali.
Occorre un cambio di passo che parli di prevenzione, di diritti sociali ed economici, di lavoro, di diritto alla salute, di autodeterminazione sessuale e riproduttiva, di femminismo migrante.
Tra gli interventi della giornata, diversi sono stati i riferimenti alle donne curde (capaci di affermarsi con forza spezzando il patriarcato lì dove appare più forte). E la stessa forza delle compagne curde le donne di Non Una di Meno provano ad iniettarla nel loro cammino: stanche di parole di circostanza vogliono far sentire la loro visione del mondo. E vogliono farlo tutte insieme.
NB: La campagna di avvicinamento alla mobilitazione nazionale del 26 e 27 sarà scandita da numerose iniziative dislocate presso associazioni, scuole, università, di tutta Italia e saranno tutte reperibili sul blog della campagna (vedi qui). Il blog sarà strumento di condivisione dei materiali e di coordinamento e diffusione delle iniziative di promozione, approfondimento e finanziamento delle due giornate romane
Il Becco è una testata registrata come quotidiano online, iscritto al Registro della Stampa presso il Tribunale di Firenze in data 21/05/2013 (numero di registro 5921).