Tutto ciò che è sociale ma non riflessione sociologica, legandosi a quello che compone la realtà in cui viviamo.
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Podemismo come quarta rivoluzione?
Negli ultimi anni si sono avute, potremmo dire con un certo understatement, varie novità nei movimenti che concorrono a definire il quadro politico del mondo occidentale. Virtualmente chiunque avrà sentito parlare di ondata populista, pericolo populista, populismo, eccetera. Molti, probabilmente, si saranno sentiti un po’ male in arnese nel decodificare correttamente un termine talmente ambiguo – alcuni si saranno anche posti la legittima domanda se sia così terribile essere populisti ovverosia richiamarsi al popolo. La confusione sorge non soltanto da tale domanda, ma anche dal fatto che nel discorso dominante il termine populismo sembra riferirsi in aggregato a formazioni diverse, appartenenti ai due capi opposti dello spettro politico (destra/sinistra) o che addirittura da esso si autoescludono e se ne proclamano estranee.
Sono una donna, non sono (solo) una mamma
La pagina Facebook dell'associazione, #VorreiPrendereIlTreno ci racconta la storia di una madre americana costretta, da 21 anni, a vivere al servizio, del figlio autistico e della terapista che lavora "per la sua autonomia". Ma quante sono le madri che ogni giorno, per anni e anni, sono costrette a spegnere i riflettori non solo su loro stesse e le loro esigenze, ma anche su quelle del resto della famiglia, perché il palcoscenico familiare è occupato da un figlio scomodo?
Ovviamente non è in discussione l'amore di una madre per il proprio figlio. Anzi, probabilmente in caso di problematiche il sentimento è anche più forte. Ma perché una madre può amare il proprio figlio non disabile e, allo stesso tempo, frequentare un corso di ginnastica, uscire con un'amica o, più banalmente, lavorare, mentre una mamma con figlio disabile deve amarlo e basta ventiquattro ore al giorno?
Il mistero dell’influenza
Tutti siamo passati almeno una volta dall’influenza. Ma cosa nasconde questa particolare malattia virale?
L’influenza la conosciamo tutti: è quello “stato dell’animo” che ci mette KO nella stagione invernale, che porta febbre, raffreddore, disturbi respiratori, dolori articolari e muscolari, affaticamento e che, in casi particolari, può sfociare in situazioni anche molto gravi come polmoniti e altre infezioni.
L’influenza però può essere anche quella malattia, conosciuta con il nome di spagnola, che fece più morti della Grande Guerra esattamente un secolo fa. Dove sta quindi la differenza? Come può la stessa malattia essere una piaga pestilenziale da milioni di morti o un banale malanno di stagione? Per capire a fondo questa malattia dobbiamo andare nello specifico: l’influenza è una malattia virale a base di RNA (acido ribonucleico) che esiste in due forme. La forma A è quella degli uccelli acquatici, quella B degli uomini. La forma A può, mutando, passare anche negli uomini e diventare quindi molto pericolosa. All’interno della forma A della malattia esistono inoltre numerose sottoforme che si distinguono in base alle loro proteine di superficie: l’emoagglutina (H) e la neuraminidasi (N). Negli uccelli esistono 18 forme di emoagglutina e 11 di neuraminidasi che possono combinarsi tra loro in moltissime maniere. Le forme di influenza prendono il nome dalla combinazione di queste proteine (HxNy).
Nella serata di venerdì 12 gennaio scorso l’assemblea lombarda degli aderenti a Libere/i e Uguali ha votato quasi all’unanimità (notabene) in quel di Cinisello Balsamo una partecipazione alle elezioni regionali separata dal PD. Molto opportunamente nei giorni precedenti erano venute meno le pressioni dal lato nazionale orientate invece all’accordo, ovviamente sulla base di una convergenza dei programmi. Tra i motivi dell’unanimità c’è stato anche, palesemente, il fastidio di compagne e compagni per il modo di queste pressioni, avendo esse sistematicamente evitato un confronto aperto a Milano o altrove in Lombardia tra figure nazionali e l’assemblea degli iscritti lombardi, o i loro delegati, benché continuamente da essi sollecitato. Non è vero quel che scrive il quotidiano del PD renziano e liberal-liberista la Repubblica, che dal lato nazionale non siano state assunte rivolte critiche e sollecitazioni ai lombardi, dato il loro evidente rifiuto dell’alleanza con Gori: tutt’altro. Accenno a tutto questo non per motivi polemici, oggi non solo inutili ma suscettibili di immettere code sgradevoli nel terreno più che necessario del riconsolidamento di reciproci rapporti di fiducia: ma perché è necessaria una discussione su cosa debba validamente comportare il ruolo dirigente. Nessuno, che io sappia, in Lombardia intende contestare quello attuale: anzi richiede che esso sia effettivamente dirigente, nei modi di esercizio di tale ruolo, inoltre perché allargato a quadri locali, a giovani, a donne, a figure di lavoratori dipendenti, ecc. È chiaro che tra i difetti che abbiamo vissuto c’è che il gruppo dirigente è tuttora, sostanzialmente, maschile e costituito da parlamentari.
Come tutti sanno la legislatura appena dichiarata conclusa era viziata alla base da poca cosa, solamente un vizio di incostituzionalità determinato da una legge elettorale (il Porcellum e l’Italicum, sua rettifica piddina). Che volete che sia? La legge elettorale infondo è solamente quello strumento di importanza vitale per la democrazia che fa discendere i parlamentari dai voti affidati dagli elettori. È altresì quello strumento che collega rappresentanti e rappresentati, paese legale e paese reale. Una quisquilia da poco se si pensa al mantra della “governabilità” imposto dai mercati. Siamo quindi immersi nel refrain de “l’importante è avere governi stabili”, perché l’instabilità attira le iene dello spread. Insomma, poco importa che coloro che occuperanno il parlamento per cinque lunghi anni siano o meno rappresentanti fedeli del cittadino che diligentemente si è recato a votare, ciò che importa è che riescano a trovare un accordo per formare un governo dalla durata in carica più lunga possibile.
Università gratuita: una questione di diritto all'istruzione
di Niccolò Bassanello e Silvia D'Amato Avanzi
Non poteva non far discutere la proposta, presentata da Pietro Grasso all’assemblea nazionale di Liberi/e Uguali lo scorso 7 gennaio, di abolire le cosiddette tasse universitarie. Immediatamente si sono levate accuse di populismo, non necessariamente argomentate, e più o meno creative difese del modello attuale. È certamente difficile non sospettare il populismo quando la proposta, oltretutto nella forma di frase ad effetto lanciata al pubblico, arriva da una formazione politica che non sembra fautrice di un’idea complessiva coerente con la gratuità dell’università pubblica: oltre ad una proposta facilmente spendibile in termini elettorali come la suddetta, infatti, LeU non fa al momento parola di misure meno popolari ma altrettanto urgenti, come una riforma complessiva in senso democratico dell'istruzione terziaria o un rifinanziamento massiccio delle esauste casse delle università e degli enti di ricerca, nonché del sistema del diritto allo studio. In guerra, in amore e in campagna elettorale tutto è lecito; ma la discussione scatenatasi, per un tema che ogni parte vuol far credere di dare per scontato, ha incendiato fin troppo gli animi – segno, forse, che lo status quo è tutt’altro che sedimentato e pacificato.
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