Un mondo, quello universitario, che io, venticinquenne diplomata nel 2008 e matricola per la prima volta nello stesso anno, vedo sgretolarsi con una velocità sempre più allarmante. Sono oramai sei anni, da quando il movimento studentesco in questo Paese fece il suo canto del cigno con l’Onda, che a furia di riforme che prendono il nome dal Ministro dell’Istruzione di turno vedo l’Università perdere pezzi.
Tagli di fondi e blocco del turn over significano solo una cosa: che non ci sono più soldi e che i professori che vanno in pensione non vengono sostituiti. E se i professori non vengono sostituiti, i corsi diminuiscono. E se i corsi diminuiscono, l’offerta formativa peggiora e gli studenti che escono laureati avranno una preparazione sempre più scadente. E succede quindi, ad esempio, che alla Cesare Alfieri, storica facoltà di Scienze Politiche di Firenze, un professore di storia delle relazioni internazionali si ritrovi a dover tenere corsi sugli Stati Uniti e l’estremo oriente, corsi di infarinatura generale per quelli della triennale e corsi sulla politica estera italiana. Non c’è così più modo di valorizzare gli studi e le competenze dei singoli, ogni specializzazione viene appianata, diventa superflua, in nome dei conti che devono tornare.
Blocco del turn over e tagli ai fondi significano anche che nelle segreterie universitarie ci sono sempre meno persone che ci lavorano. Quindi, di conseguenza, file sempre più lunghe e mattinate passate a cercare di sbrigliare la matassa che la burocrazia ha intortigliato.
Allo stesso tempo, saltano borse di studio e ragazzi che hanno diritto ai sussidi restano esclusi dagli alloggi perché, tanto per fare un esempio, il Comune di Pisa di affidare al DSU l’ex Convento di Fossabanda, stabile oramai dismesso, non ne vuole proprio sapere.
Il punto però è che il dramma vero è un altro. Non tanto che oramai da anni sia in atto un processo di distruzione sistematica della scuola e dell’università, mirato alla completa privatizzazione dell’istruzione e alla mercificazione totale del sapere ma quanto che non ci rendiamo conto di cosa ci stanno togliendo. Non ci rendiamo conto che ancora ci stiamo muovendo nell’ambito dei diritti, e di quelli fondamentali oserei aggiungere. Non ci rendiamo conto che la trasformazione da università ad azienda produrrà danni irreparabili, precludendo a migliaia di ragazzi la possibilità di riscatto sociale, quel riscatto sociale che qualche decennio fa ti faceva andare orgoglioso di essere il primo figlio di una famiglia di operai a laurearsi, e perpetuerà così le differenze e le discriminazioni che ancora oggi esistono nella nostra società. Non ci rendiamo conto che un ragazzo che lavora 40 ore a settimana per pagarsi le tasse universitarie dovrebbe essere incoraggiato e facilitato, che dovrebbe essere trovato un sistema per far sì che il sapere sia accessibile a tutti.
E invece siamo tutti buoni a lamentarci degli orari delle lezioni che non tornano ma quando si tratta di provare a fare una critica un pochino più approfondita ci fa fatica pure andare al seggio a votare (notare bene, nella mia Facoltà alle ultime elezioni per la rappresentanza studentesca abbiamo rischiato seriamente di non raggiungere il quorum del 20% di elettori). Il punto è poi, alla fine, sempre lo stesso: la grossa difficoltà che incontra la sinistra in questo Paese è dovuta al fatto che, per colpe che di certo non le sono estranee, oramai non c’è più nessuno pronto ad ascoltare, predisposto a comprendere e condividere un ragionamento che vada oltre quello che dicono Mentana e Grillo al tiggì delle 20.00. E questo significa, di conseguenza, che, dato che non c’è consapevolezza dei propri diritti, chi sta dall’altra parte della barricata incontra sempre meno difficoltà nel fare passare la propria visione di società. Se non ti rendi conto del fatto che è giusto che chi non può permettersi l’università riceva una borsa di studio, che c’è una reale necessità di investimento nella ricerca universitaria, che oltre ad essere fondamentale per l’innovazione e lo sviluppo economico, fa anche crescere un popolo, che tutti devono avere la possibilità di accedere a quegli strumenti di critica ed elaborazioni che permettono a ciascuno di noi di vivere con consapevolezza sempre maggiore la propria condizione di cittadino italiano e “del mondo”, ecco, come puoi lamentarti se l’unica cosa che importa è che i bilanci tornino?