Martedì, 13 Agosto 2013 00:00

Femminicidio: il decreto legge non basta

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Finalmente il Governo ha partorito un decreto legge sul femminicidio. Erano mesi che se ne parlava ma ancora non avevamo visto niente. E invece eccola qua. Un decreto voluto fortemente anche dall’ex ministra Josefa Idem, e che per mio personale parere, l’aveva pensato in maniera totalmente diversa da quello che poi è stato presentato ieri. Non l’ho studiato attentamente ma da una prima analisi emergono dei punti non molto chiari né precisi.

Partiamo dal più evidente: sono state inserite misure repressive contro il movimento No tav. Si parla di messa in sicurezza dei cantieri che si traduce in una maggiore militarizzazione ed espropriazione di quel territorio. In più sono previste punizioni più severe per chi osa varcare i confini dell’area in cui è realizzato il cantiere. Questo cosa c’entra con la violenza sulle donne? Sembra che si voglia assimilare i manifestanti con chi decide di commettere violenza e addirittura omicidi. Leggendo poi gli avvenimenti degli ultimi giorni, sono proprie le forze dell’ordine che hanno agito in maniera violenta contro alcune attiviste Notav: per loro, dunque, cosa sarà previsto? Niente immagino.

Già questo primo punto ci lascia estremamente perplessi ma scorrendo il decreto se ne trovano anche altri, ahimè. Come sempre non si parla di formazione e prevenzione, argomenti tabù nel nostro Paese, come se parlare di educazione al genere e all’affettività all’interno delle nostre scuole fosse peccato. Certo è che se non si parte dai futuri cittadini le cose non cambieranno; se non si inizia a parlare con i bambini di questi temi con chi se ne deve parlare? Loro possono essere i migliori stakeholder anche all’interno delle proprie famiglie, ma come sempre si preferisce lasciarli fuori dai ragionamenti degli adulti. Si pensa solo ed esclusivamente all’immediato, o almeno così vogliono far credere. Perché, in realtà, all’interno del decreto si parla di un potenziamento dei centri antiviolenza, ma in maniera vaga e non chiara, e inoltre non sono stati previsti - ad esempio - fondi per questo genere di servizi, essenziali quando dobbiamo affrontare il tema della violenza. Confrontandomi con chi si occupa di questi temi nella mia provincia, ci siamo subito rese conto che questo decreto allontanerà le donne dai servizi, spingendole verso le forze armate. Non credo che la repressione sia la migliore arma, anzi, soprattutto se non c’è la certezza della pena; questo farà sì che le donne, per paura, non denunceranno e continueranno a tenersi in casa il proprio aguzzino.

E’ stata inserita la non revocabilità della querela, grande vittoria del Ministro Alfano, ma come ha giustamente dichiarato Michela Murgia, questa “è una grande responsabilità che lo Stato si assume perché chi impedisce alla vittima di revocare la denuncia deve poter garantire che l’inasprimento degli abusi non ci sarà. O che se ci sarà, la donna verrà protetta. Lo dico perché nella stragrande maggioranza dei casi dal momento della querela le cose per chi ha subito violenze cominciano a peggiorare”. Non solo, aggiunge Michela, “io ho sempre creduto che una donna debba avere la libertà di decidere se vuole o meno denunciare. Per questo non sono molto d’accordo con la procedibilità d’ufficio che prevede anche che possa essere il pronto soccorso a inviare una segnalazione a polizia e carabinieri. Questo vale ancora di più oggi: se una donna, a un certo punto, non se la sente di continuare l’iter processuale, deve poter fare un passo indietro. Non è giusto trasferire questo diritto alle forze dell’ordine. È un’ulteriore sottrazione che si fa a chi di violenze già ne ha subite parecchie”. Dobbiamo lasciare libertà di denuncia anche perché spesso le donne apportano delle motivazioni non confutabili: timori legati al proprio futuro, e a quello dei figli. E in questo decreto non si studiano ipotesi per il reinserimento della donna violentata nella vita sociale, rafforzando ancora più quel legame, non sempre affettivo, con il patner violento.

Ma questo brillante Decreto Legge non finisce qui, infatti come fa giustamente notare Concita De Gregorio, “dire che la pena sarà di un terzo più severa nel caso in cui le vittime siano incinte o mogli o compagne o fidanzate del carnefice è comprensibile, dal punto di vista del legislatore, perché sì che battere una donna che aspetta un bambino o che ha un vincolo di fiducia con chi la aggredisce è più grave. Ma stabilisce anche una discriminazione culturalmente delicatissima verso le donne che non fanno figli e non hanno legami con un uomo. In che senso uccidere una donna non sposata e non madre è meno grave? Vale forse di meno per la società?”. Concludo sostenendo che questo decreto era indispensabile, ma che magari poteva essere pensato in maniera diversa, bastava confrontarsi con le associazioni, con gli enti impegnati in prima linea su questo tema. O forse bastava pensare con la testa di una donna.

Immagine liberamente tratta da: www.ilmanifesto.it

Ultima modifica il Lunedì, 12 Agosto 2013 22:08
Erica Rampini

Sono nata ad Arezzo il 26 giugno 1987, dopo un diploma in lingue ho lasciato il mondo poliglotta per iscrivermi alla Facoltà di Scienze per i Beni Culturali, laureandomi nel lontano 2009 con una tesi su donne e Resistenza. Sono stata presidente dell'Udi aretina e attualmente sono membro nella Commissione Pari Opportunità della Provincia di Arezzo. Da qui si possono evincere le mie passioni: politica e diritti. Attualmente sono assessora nel Comune di Monte San Savino, ridente paesino in provincia di Arezzo

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