Lunedì, 27 Ottobre 2014 00:00

Francesco Francaviglia - La fame di giustizia che ci portò a lottare

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Francesco Francaviglia presso la sede della mostra "Le donne del digiuno" - Foto © Michele Vino Francesco Francaviglia presso la sede della mostra "Le donne del digiuno" - Foto © Michele Vino

C'è una via, a Firenze, dove l'asfalto si fonde con la memoria di un passato violento. Migliaia di turisti la lambiscono ogni  giorno, mentre indaffarati nel dare un senso al loro viaggio fagocitano con una fotocamera frammenti di arte rinascimentale, destinata a divenire un mucchio di pixel da mostrare orgogliosi ai parenti. Qualcuno l'attraversa, ma in pochi forse ricordano: incastonata in un triangolo delle meraviglie, tra Ponte Vecchio, gli Uffizi e Piazza della Signoria, si trova via dei Georgofili. Qui, la notte del 27 maggio 1993, Cosa Nostra decise di estendere il metodo stragista adottando una strategia di carattere terroristico-eversivo, in una guerra allo Stato da condurre su tutti i fronti. “Ucciso un giudice, questi viene sostituito; ucciso un poliziotto avviene la stessa cosa, ma distrutta la torre di Pisa si distrugge un bene insostituibile con danni incalcolabili per lo Stato”, queste le parole del presunto trafficante di opere d'arte che suggerì agli esponenti mafiosi l'idea dell'attentato. L'autobomba, che causò cinque morti, quarantotto feriti e la distruzione della Torre dei Pulci, rappresentava la risposta della criminalità organizzata all'inasprimento delle pene previsto dall'articolo 41 bis, il quale comprendeva un regime di carcere duro e l'isolamento. L'esplosione causò anche il parziale danneggiamento di numerosi dipinti, nonché del complesso artistico-monumentale della Galleria degli Uffizi.

 

Oggi in uno di questi spazi – l'aula dell'ex chiesa di San Pier Scheraggio – a riecheggiare non è più il suono di quel boato, bensì il coro di dissenso che la società civile intonò a più voci contro la mafia, già all'indomani della strage di Capaci. Fino al 9 novembre sarà infatti possibile visitare la mostra “Le donne del digiuno” del fotografo palermitano Francesco Francaviglia e curata da Tiziana Faraoni, photoeditor de “l'Espresso”: trentuno ritratti, trentuno sguardi di donne che raccontano la storia di un digiuno che si fa protesta, in quanto fame di giustizia. Un atto a viso aperto, dove massimo era il grado di identificazione con quei valori di legalità e giustizia che in tanti, dal '92 in poi e con modalità differenti, si ritrovarono a condividere. Tra i volti troviamo anche quelli di personalità note come Rita Borsellino, sorella di Paolo, o quello di Letizia Battaglia, fotografa divenuta vessillo dell'antimafia militante a partire dalla sua collaborazione con il giornale “L'Ora” di Palermo (qui l'intervista che ci rilasciò pochi mesi fa); e ancora, quello di Michela Buscemi, nota per essersi costituita parte civile al Maxiprocesso in seguito all'assassinio dei due fratelli. Francaviglia, nel suo intessere un'intima relazione con il soggetto fotografato, fa suo l'adagio di Modigliani: “Quando conoscerò la tua anima, dipingerò i tuoi occhi”.

A seguire, l'intervista che il fotografo ci ha gentilmente concesso, a margine della nostra visita alla mostra.

 

All'epoca in cui “le donne del digiuno” misero in atto la loro protesta eri poco più di un bambino. Come sei venuto  a conoscenza di quell'evento e quale funzione può rivestire la fotografia in un racconto “a posteriori”?

Rita Borsellino - Foto © Francesco FrancavigliaPer essere esatti nel '92 avevo dieci anni, un'età in cui non possiedi ancora una tua coscienza civile, politica o sociale. La scoperta della protesta intrapresa dalle “donne del digiuno” avvenne quindi più in là, da adulto, nel periodo in cui stavo portando avanti un progetto incentrato su  quei magistrati che nell'ultimo trentennio hanno speso la loro vita nella lotta contro il fenomeno mafioso. Documentandomi in merito ai processi e, più in generale, in merito al clima che si respirava nella Palermo di quegli anni, venni a conoscenza di quel gesto esemplare di dissenso e di coloro che ne furono le artefici. Fu come un pugno allo stomaco, avvertii la necessità – sia in quanto cittadino che in quanto fotografo – di addentrarmi in quella storia per carpirne l'essenza; di certo non volevo rimanerne un mero spettatore. Credo che il ruolo della fotografia sia di cardinale importanza, poiché in grado di canalizzare un messaggio, democratizzarlo, renderlo accessibile ad un pubblico il più vasto possibile. La fotografia riesce a creare memoria, sottraendo all'oblio. In quanto linguaggio immediato, se vogliamo empatico, risulta maggiormente d'impatto anche rispetto alla stessa parola scritta. Esponendo agli Uffizi, quindi nel regno dell'arte, vengo spesso presentato in qualità d'artista ma voglio precisare come io sia piuttosto un testimone, con la volontà di raccontare al meglio una vicenda storica e soprattutto di tramandarla. Personalmente è una grande vittoria prendere atto della visibilità di cui questa mostra sta godendo, sia in termini di visitatori – mi è stato anche proposto di incontrare le scolaresche organizzando delle visite guidate, altro motivo d'orgoglio – che di eco sui mass-media: quella delle donne del digiuno è stata una pagina di storia che correva il rischio di essere dimenticata.

 

Sono trascorsi ventidue anni da quando le protagoniste di quel gesto scesero in piazza. Quale percezione ne è rimasta? In che modo hanno tradotto, negli anni a seguire, il loro impegno civile?

Letizia Battaglia - Foto © Francesco FrancavigliaVa ricordato che nel periodo successivo alle stragi, a Palermo, presero vita diverse forme di protesta atte a rendere esplicito un montante spirito di dissenso nei confronti della mafia, spirito che sembrava prendere sempre più piede. Associazioni e soggetti di vario genere si riunivano, sfilavano per le strade, ognuno utilizzando il linguaggio che gli era più congeniale. È ancora vivida nella memoria di tutti la protesta del Comitato dei Lenzuoli, questi drappi bianchi appesi ai balconi della città a simboleggiare la volontà di esporsi ed identificarsi nel “no alla mafia”. Rispetto a manifestazioni così eclatanti – considerandone soprattutto la potenza visiva – l'episodio del digiuno correva il rischio di essere oscurato e, in parte e per troppo tempo, così è stato. Riguardo la percezione e quindi l'utilità delle azioni contro la criminalità organizzata, credo che siano necessarie nella loro totalità. L'importante è esserci con il proprio impegno e con tutta la passione che si è capaci d'investire in una causa come questa, ma senza pretendere che ogni atto di protesta dia i suoi frutti nell'immediato, il che spesso si è rivelato essere piuttosto illusorio. Durante la giornata d'inaugurazione della mostra ho avuto il piacere di rincontrare quattro di queste donne: le testimonianze che hanno riportato sono state molto evocative ed ho ritrovato in loro la stessa passione che le animava durante i nostri primi incontri. Il bisogno di riscatto è rimasto immutato per tutto l'arco di questi ventidue anni, così come quello di tutti gli italiani. Non va infatti dimenticato come, mentre quelle stesse donne digiunavano per ottenere giustizia, vi erano pezzi delle istituzioni che si adoperavano per insabbiare le inchieste più scomode. La scomparsa dell'ormai tristemente nota “agenda rossa” di Borsellino ne è soltanto un esempio. Venendo ai giorni nostri, ognuna porta avanti l'impegno civile secondo le proprie possibilità ed attitudini: c'è chi insegna negli istituti scolastici e chi, come Bice Mortillaro, ha lavorato per anni in realtà sociali difficili come quella del quartiere Zen di Palermo. Ciò che rileva è come le loro attività siano molto spesso indirizzate verso la formazione culturale dei giovani, assicurando al futuro di questa città persone consapevoli di ciò che è stato.

 

Da cittadino, oltre che da fotografo, come ti poni nei confronti di una politica che spesso fa degli slogan l'unica arma con la quale combattere la criminalità organizzata?

Tengo a ribadire che non sono un “mafiologo”, un magistrato o un giornalista. Il mio approccio al tema è quello di un fotografo e se, in quanto tale, riesco a raccontare una storia, questo mi fa sentire utile e conferisce un senso a quello che è il mio operare. In questo mio lavoro ho provato ad ottenere immagini “crude” nella loro sincerità, proprio perché l'aspetto che più temevo era la possibilità di sconfinare nella retorica, quella stessa retorica che negli ultimi anni ha caratterizzato certa politica negli interventi sulla lotta alla mafia.

 

Nei tuoi ritratti è ricorrente l'elemento dello sfondo nero, dal quale emergono i volti dei soggetti; i loro sguardi incrociano prepotentemente quello dell'osservatore come nel tentativo di volerlo chiamare in causa, rendendolo partecipe di quello spirito di lotta che, in definitiva, è bene appartenga a tutti noi. Spiegaci il perché di questo linguaggio narrativo.

Mimma Grillo - Foto © Francesco FrancavigliaÈ stato difficile capire come rendere al meglio il progetto: mi relazionavo con un evento accaduto ventidue anni fa, nell'impossibilità di agire entro i canoni del reportage “classico”, quindi non potendo cogliere l'azione nel suo svolgersi. L'unica scelta che avevo era quella di incontrarle singolarmente, creare un rapporto frontale, diretto. Lo sguardo in camera che caratterizza tutte queste immagini è frutto della fiducia tra il fotografo e colui che sta ritraendo, ma anche dell'attesa, a volte protratta per giorni interi, che consiste in quel lasso di tempo necessario affinché il soggetto avverta la tua lealtà. Tutti elementi che rendono affascinante il genere del ritratto, l'incognita dell'altro, la ricerca e la scoperta di un punto d'incontro tra chi sta davanti l'obiettivo e chi dietro: raggiunto l'incontro è lì che scatta la magia. Del resto, questo lavoro è nato e si è sviluppato talmente velocemente che la scelta dell'immagine è la risultante non tanto di uno studio meticoloso, quasi asettico, bensì dell'impulso. Iniziai a fotografare ai Cantieri Culturali di Palermo e durante il primo ritratto mi accorsi che la parete a fianco era completamente nera, così chiesi al soggetto di spostarsi su quello sfondo. Il nero, così pensai da subito, era metafora di quel mistero e di quella sete di verità che lei mi stava trasferendo in quel momento. A ripensarci sono sempre più convinto di come sia stata una scelta azzeccata, credo che ogni elemento o aggiunta sullo sfondo avrebbero distratto l'osservatore dal vero messaggio che intendevo comunicare. Così com'è nata la scelta del fondale nero, allo stesso modo ha preso corpo l'idea della sfocatura molto pronunciata, a simboleggiare la mancanza di riferimenti; eccezion fatta per gli occhi, a volte lucidi, comunque sempre comunicativi di quest'ardente desiderio di rivalsa. Tuttavia questi ritratti, senza la storia che hanno alle spalle e quindi privati della loro valenza sociale, certamente non avrebbero sortito il medesimo effetto. Sarebbero rimasti degli esercizi di tecnica e di stile, forse anche ben riusciti, ma del tutto vuoti in quanto a contenuti. Il loro portato va ben al di là delle caratteristiche estetiche intrinseche alle immagini.

 

Hai precedentemente esposto le tue opere a Palermo, presso Palazzo Zino. Quali saranno le prossime tappe di questa mostra itinerante? Cosa puoi dirci riguardo ai tuoi progetti futuri?

Daniela Musumeci - Foto © Francesco FrancavigliaLa mostra ha ricevuto numerosi inviti da parte di festival e spazi espositivi, cosa che mi rende molto orgoglioso poiché l'unica chiave di lettura da attribuire a questo fiorire di richieste è quella di un interesse crescente nei confronti della tematica in questione ed una volontà di farla riemergere alla luce. Stiamo già lavorando all'organizzazione delle prossime esposizioni che si terranno, oltre che in Italia con Roma e Venezia, anche all'estero tra Oslo, Berlino e Parigi. I progetti paralleli a questo, al momento, sono due: il primo, come accennato in precedenza, è dedicato ai ritratti dei magistrati impegnati negli ultimi tre decenni sul campo della lotta alla mafia; il secondo, del quale è visibile un'anteprima presso il Festival internazionale di Fotografia di Roma, ha come protagonisti i poeti italiani contemporanei.

Ultima modifica il Lunedì, 20 Aprile 2015 08:44
Davide Barbera

Classe 1988, nasce a Trapani, sotto il sole raggiante che bacia la costa occidentale della Sicilia. Grazie all'influenza del padre si appassiona alla fotografia, passione che spesso prende le sembianze di una vera e propria ossessione con la quale tediare chiunque capiti nel suo raggio d'azione. Toscano d'adozione, attualmente studia fotografia presso la Libera Accademia di Belle Arti di Firenze. Confidando nelle proprietà del buon vino, che inscindibilmente lo accompagna fin dall'anagrafe, rassicura se stesso e chi gli sta accanto asserendo che migliorerà invecchiando.

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