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Shura, avanguardia di una nuova sensibilità pop
Shura è il sintomo di un più vasto cambiamento di sensibilità che investe tutta la musica. Nella sempre maggiore difficoltà di distinguere fra rock e pop, alternativo e mainstream, sperimentale e commerciale, la musica contemporanea si muove con disinvoltura attraverso questi confini un tempo sacri e li confonde, mescola, ridicolizza. Nel bene e nel male, il nuovo paradigma che si sta imponendo è quello del "poptimismo", una rivalutazione del pop in tutte le sue infinite manifestazioni e come reazione al machismo "rockista" fatto di riff muscolosi e lunghi assoli chitarristici.
Suicide: ristampato il primo disco dei geni della new wave
Non poteva nascere sotto circostanze più luttuose la ristampa dell'omonimo primo disco dei Suicide. Il capolavoro del duo vede infatti nuova luce pochi giorni prima di quel sedici luglio scorso, quando Alan Vega, all'età di 78 anni, viene trovato morto nel sonno. Dei suicide ora resta solo l'altra metà, il sempre attivo e prolifico Martin Rev. I suicide appartengono definitivamente al passato, ma la loro influenza perdura tutt'ora.
Il duo è stato uno dei progetti allo stesso tempo più sperimentali e più stimolanti della fine degli anni settanta. In un epoca di forti turbolenze e agitazioni musicali, con la travolgente comparsa del punk e i primi vagiti di quella rivoluzione epocale che fu la new wave, i Suicide hanno saputo cogliere lo spirito nichilista, nervoso, iconoclasta dell'epoca per contribuire in maniera determinante a definire le coordinate della musica del futuro, dando un impulso decisivo a generi come l'industrial, la techno e la new wave stessa.
Nell'anno della piena consacrazione della prima ondata del punk, con la pubblicazione di Nevermind the Bollocks dei Sex Pistols, dell'omonimo disco dei Clash e del devastante Rocket to Russia dei Ramones, tutti targati 1977, si muoveva in parallelo un movimento di musicisti più oscuri e sotterranei ma non meno ambiziosi e visionari. Epicentro di questa scuola di artisti che vedeva il punk come evento di rottura epocale ma già guardava oltre, era New York, dove vi gravitavano artisti estremamente raffinati ed incredibilmente avanti coi tempi. Oltre alla poetessa Patti Smith e all'irresistibile combo dei Blondie, si muovevano nella giungla urbana della Grande Mela, gravitando spesso attorno al locale CBGB, gruppi destinati a cambiare completamente il modo di fare e intendere la musica.
Fra questi, i Talking Heads, fin dal loro esordio discografico del 1977, presero il nichilismo punk e lo impregnarono di un concentrato di ritmi funky sbilenchi e ossessivi, di sonorità elettroniche plastiche e tese, per un rock psicotico e allucinato. Decisivo fu anche il contributo dei Television che su Marquee Moon, trasfigurarono il punk in un baccanale di ricchissime soluzioni chitarristiche anni sessanta, in un capolavoro di suoni nevrotici e viscerali. Non ultimi, proprio i Suicide, rappresentavano all'interno di questo calderone di creatività dirompente, la componente più estrema e la proposta più radicale dell'intera scena.
Il loro album d'esordio, sempre del 1977, era l'omonimo Suicide per l'etichetta indipendente Red Star, album che all'epoca riscosse una tiepida risposta di pubblico e critica ma che col passare degli anni ottenne tutto quel riconoscimento che merita. Si tratta di un disco fondato su una proposta musicale minimalista: tastiere (Rev) più voce (Vega) per un rock destrutturato e nichilista che li fece accostare alla componente più radicale, iconoclasta e autodistruttiva della new wave, ovvero quella No-Wave magistralmente immortalata nella compilation "No New York" prodotta da Brian Eno nel 1978.
Ma i Suicide non erano dei demolitori musicali fini a se stessi: nelle loro composizioni trapela piuttosto il tentativo di rappresentare tutto il disagio e i turbamenti di una generazione in subbuglio, schiacciata fra gli ultimi sogni idealisti di trasformazione sociale e l'alienazione individualista metropolitana, che stava risucchiando la contestazione in un oceano di edonismo e rassegnazione.
Suicide contiene sonorità mai sentite fino a quel momento. Tutte le tracce sono assalti frontali alla normalità e alla convenzione. Innocue ballate anni cinquanta, banali ritmi disco, vengono lacerati e rovesciati in un incubo perpetuo. I personaggi che popolano i testi di Vega e Rev sono fantasmi persi in qualche anfratto di un ospedale psichiatrico in abbandono. Tutto diventa un atroce e spasmodico lamento che non trova risposta. Come afferma il critico Piero Scaruffi, che considera Suicide uno dei dischi più importanti della storia del rock, "i loro brani sono deliri di suicidi volontari nei labirinti metropolitani, sono esercizi di auto-flagellazione che raggiungono un pathos paranoico attraverso una monolitica catalessi esistenziale".
Ossessivi e pungenti, minimali e martellanti, i synth di Rev si pongono al servizio del cantato spasmodico e affannoso di un Vega invasato. Le urla demoniache e i frenetici mantra vocali rendono il dittico iniziale "Ghost Rider"/"Rocket USA" un vero e proprio esercizio di perversione e angoscia. L'inquietudine domina anche gli episodi più rilassati e melodici, come la dolce "Cheree", una versione ansiogena e depravata di Sunday Morning dei Velvet Underground o la conclusiva "Che", un concentrato di pulsioni funeree. L'incubo continua con "Johnny", un rockabilly per menti schizzate su un giro di tastiere ipnotico e inquietante e con il desolante mantra psichedelico di "Girl", figlio di una tensione nervosa perpetua ed estenuante. L'angoscia raggiunge però il suo climax con la lacerante "Frankie Teardrop", storia di un operaio depauperato dai processi di deindustrializzazione che per disperazione finisce per sterminare la propria famiglia prima di rivolgere la medesima violenza contro se stesso. Gli oltre dieci minuti di questo raccapricciante canto di morte, che rende universale la deprivazione morale e materiale di un proletariato urbano inghiottito in un vortice di alienazione e smarrimento ("We're all Frankies/ We're all lying in hell", recita l'ultimo verso), rappresenta uno degli episodi più agghiaccianti di tutta la storia della musica rock.
Il contributo dei Suicide alla musica alternativa è difficilmente quantificabile. Le loro ossessioni e perversioni musicali hanno creato un fantasma destinato a riapparire in molte delle produzioni new wave successive e non solo (Joy Division, Killing Joke, Einstürzende Neubauten,ecc..). Il loro album d'esordio ha costruito delle atmosfere ansiogene e nervose destinate a fare scuola e ha rappresentato una delle più fedeli rappresentazioni del disagio e delle angosce di quel periodo storico.
I Blonde Redhead a Fiesole: Live Report
A 12 anni dalla pubblicazione, i Blonde Redhead, fra i più influenti e originali esponenti dell'alternative rock americano, ripropongono dal vivo uno dei capisaldi della loro discografia, il sempreverde Misery is a Butterfly. E lo fanno con l'accompagnamento di un quintetto d'archi per restituire tutta la ricchezza e la complessità del suono contenuto in questo disco di notevole spessore, tutt'oggi un po' sottovalutato.
Yumi Zouma: il nuovo pop viene dalla Nuova Zelanda
Alla prima prova sulla lunga distanza gli Yumi Zouma non sbagliano. Adorato dagli hipster giapponesi e celebrato dalla critica, il breve EP dello scorso anno, nonostante abbia suscitati pareri molto postivi, non poteva essere considerato un punto di arrivo, ma semmai, la fine di una fase semi-amatoriale che doveva necessariamente portare alla realizzazione di qualcosa di più ambizioso e compiuto.
Teens of Denial: la consacrazione della giovane stella indie Car Seat Headrest
L'amore per gli anni novanta non cessa di diminuire. Ne è testimonianza il fatto che di ottimi gruppi influenzati dal rock più underground di quella decade continuino a spuntarne come funghi. Solo l'anno scorso abbiamo assistito alle gesta di artisti diversi fra loro - come Girlpool, Courney Barnett e Hop Along -ma tutti accumunati da una sincera infatuazione per un approccio rock obliquo e tagliente, sghembo e diretto, rigorosamente in bassa fedeltà.
Strangers: torna il folk spettrale e onirico di Marissa Nadler
Il nuovo folk americano parla già da oltre un decennio il linguaggio della inconfondibile grazia e della sobria eleganza di Marissa Nadler, talentuosa cantautrice nativa di Washington, ma cresciuta artisticamente fra Boston e New York. I suoi bozzetti decadenti e stralunati hanno definito i contorni di una narrazione intimistica e introversa, scarna e onirica in grado di regalare frammenti di un folk spoglio e malinconico su dischi come Ballads of Living and Dying (2004) e The Saga of Mayflower May (2005), raccolta di amare e tenere riflessioni sulla morte e l'amore.
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