Leggendo notizie confuse e incomplete sulla reale situazione, ho deciso di condividere una riflessione storica, dopo essermi andato a rivedere una relazione e una ricerca fatta in ambito universitario sulle politiche nazionali dell’Unione Sovietica a partire dal 1928, quando Stalin e il Comitato Centrale del Partito Bolscevico organizzarono la politica della collettivizzazione nelle campagne sovietiche. Non si tratta di una inchiesta di denuncia né intende stabilire cosa sia un crimine e quanti ne siano stati commessi, ne una ricerca basata a valutare il grado di violenza espresso dall’Unione Sovietica sotto la guida di Stalin. Intendo trattare un campo poco conosciuto delle epurazioni staliniane, definite in questa nomea nella storiografia contemporanea in quanto frutto di precise direttive di Stalin al Comitato Centrale e all’NKVD (la polizia politica sovietica prima della nascita del KGB), principale strumento della politica del “Grande Terrore”. Di queste operazioni, tradizionalmente collocate tra il 1936 e il 1938 ma iniziate molto prima, quelle meno trattate sono le cosiddette pulizie etniche. Che non vanno confuse con le operazioni di genocidio di massa, il cui principale obbiettivo è l’eliminazione fisica di una parte della popolazione discriminata per motivazioni etniche, politiche o religiose. Si tratta piuttosto del ripopolamento di un territorio e del cambiamento demografico attuato con la forza, nella quale la minoranza etnica viene “ricollocata” in un territorio diverso seguendo una precisa strategia politica, economica o militare.
Particolare fu il caso dell’Ucraina e della regione del Donbass, territorio tradizionalmente critico per la Russia dopo la guerra di Crimea. Nel giugno 1923, in una risoluzione del Comitato Centrale verso la politica delle nazionalità, Stalin gettò le basi per un piano di controllo sui popoli delle repubbliche sovietiche. L’idea di fondo di questa strategia era di integrare politicamente nel sistema sovietico le popolazioni diasporiche che vivevano lungo i confini occidentali nazionali. Lo stato sovietico si impegnava a sostenere forme di nazionalismo che non entravano in contrasto con la struttura unitaria della federazione, con lo scopo di incoraggiare lo sviluppo di lingue nazionali, élites nazionali e culture nazionali. Inoltre l’estensione del sistema nazionale e la sua divisione in piccole repubbliche e distretti aveva lo scopo di fondere insieme con il tempo le piccole nazionalità all’interno di una struttura federativa più ampia, sviluppando allo stesso tempo l’autonomia nazionale di questi senza sollecitare il conflitto etnico. Considerato dallo stesso Lenin come il maestro delle politiche sulle nazionalità, per la sua esperienza in Georgia, Stalin riuscì a fondere le concezioni di di Georgij Leonidovič Pjatakov, convinto della necessità di una federazione fortemente centralizzata, e dello stesso Lenin, favorevole all’inserimento nel programma del partito del diritto all’autodeterminazione come elemento di attrattiva e di propaganda per i popoli che volevano entrare a fare parte della federazione delle repubbliche sovietiche e utile per l’educazione ideologica del proletariato.
Un punto importante del nuovo decreto, che diventerà l’impalcatura centrale dell’intera politica delle nazionalità, riguarda la promozione e lo sviluppo delle lingue nazionali e anche delle élite nazionali, in modo che queste possano occupare posizioni di leadership all’interno del partito, nel governo regionale, nell’economia, nell’industria e nella istruzione in ogni territorio, garantendo così l’autonomia alle diverse nazionalità. Il processo di promozione delle culture nazionali viene identificato con il termine russo “korenizatsiia”, che si può tradurre come indigenizzazione, in quanto termine derivato dall’aggettivo russo “korrenoi”, ovvero indigeno. Il termine korenizatsiia viene coniato direttamente dagli apparati burocratici sovietici per riferirsi a tutte le nazionalità presenti nell’Unione Sovietica, in quanto prima vi erano termini differenti per ogni titolo nazionale o locale (Ukrainizatsiia, Uzbekizatsiia, ecc). Stalin comunque gli preferisce il termine natsionalizatsiia, in quanto secondo il leader sovietico questo processo di sviluppo delle culture locali serve a rispondere alle aspirazioni positive dei nazionalismi: “Le masse avrebbero visto che il potere sovietico e i suoi organi sono il risultato dei loro sforzi, l'incarnazione dei loro desideri. Potere sovietico che fino al tempo presente è rimasto il potere russo, che quindi dovrà essere costruito come non solo russo, ma internazionale, e diventare naturale per i contadini delle nazionalità oppresse precedentemente”. In atti pratici questa politica si traduceva in una connessione di ogni unità amministrativa territoriale, a partire dalle repubbliche sovietiche sino a i distretti, con la nazionalità maggioritaria al suo interno, che godeva di vantaggi in termini di accesso alle risorse economiche e agli apparati dello stato e del partito. Si può quindi definire una “discriminazione positiva” nel mercato del lavoro controllato dallo stato, favorendo l’impiego nell’industria di gruppi nazionali prevalentemente rurali, attraverso la promozione delle culture nazionali e delle élite mediante la creazione di istituzioni di educazione superiore nei vari territori, la promozione delle lingue nazionali negli apparati burocratici e nell’informazione nonché nella produzione culturale. La gestione amministrativa e la responsabilità di questa politica erano state affidate al Comitato Esecutivo Centrale delle Nazionalità Sovietiche (sigla TsIK) e al Comitato dell’Educazione delle Repubbliche Sovietiche (Narkompros RSFSR) per quanto riguarda il campo dell’istruzione.
La responsabilità del controllo delle attività della korenizatsiia per evitare derive di tipo nazionalistiche separatiste o una esplosione di conflitti etnici era stata assegnata alla Polizia politica sovietica (OGPU poi NKVD) insieme alla supervisione del Comitato Centrale del Partito e del Politburo. La prima regione nel quale venne sperimentata e attutata la nuova politica fu l’Ucraina. Laza Kaganovich, primo segretario del Partito bolscevico ucraino, dichiarò nel 1926: “Le nostre minoranze nazionali non sono come le stesse in Russia. Abbiamo minoranze nazionali compatte che ci hanno avanzato numerose richieste. E 'sufficiente citare i dati dell’OGPU per tracciare un quadro abbastanza chiaro in proposito”. In Ucraina vi era una massiccia presenza di quelle che Stalin definiva minoranze occidentali, ovvero gruppi nazionali polacchi, tedeschi, bulgari e greci, spesso economicamente più prosperi della maggioranza nazionale ucraina e anche con livello di istruzione più avanzato. Vi erano molte tensioni a causa della presenza di questi gruppi nazionali: lo scontento per la massiccia immigrazione dei tedeschi protestanti, soprattutto in seguito all’occupazione tedesca del 1918 e le continue tensioni tra i gruppi nazionali polacco e ucraino. Stalin e il Politburo appoggiarono un’operazione di “ucrainizazzione” per la creazione di un élite di governo ucraina attraverso la promozione della lingua e della cultura ucraine. Una operazione che generò scontento e impopolarità tra i bolscevichi del Partito ucraino e anche in quello russo, che però protestarono solo in modo indiretto alla nuova politica adottata e denunciavano il maltrattamento delle minoranze nazionali ucraine in seguito a questa ucrainizzazione. Nel 1924 al Congresso del Partito bolscevico ucraino il segretario Emanuel Kviring condannò la politica adottata in quanto aveva generato scontri e tensioni tra i distretti polacchi e tedeschi con quelli ucraini e russi.
La formazione della rete di villaggi come soviet nazionali si traduce in una connessione importante tra l’identità etnica e il controllo del territorio da parte dell’amministrazione sovietica. Nonostante la volontà di garantire una pacificazione delle componenti etniche del paese, ci furono molte perplessità tra la popolazione ucraina in quanto vedevano l’istaurazione dei soviet nazionali come una protezione e una restaurazione dei privilegi che avevano le minoranze tedesche e polacche in campo economico. Fattore che venne fuori in maniera più acuta riguardo alla problematica del soviet nazionale ebraico, visto come un retaggio dell’impero zarista. Il modello della rete di soviet nazionali e dei Kolchoz nazionali, i villaggi di lavoro obbligatori istituti con la collettivizzazione del 1928, costruita da Mykola Skypnyk. Commissario del Comitato per l’Istruzione in Ucraina, colui che ha convinto il Comitato Centrale di introdurre la politica dell’ucrainizzazione. La lingua ucraina è stato istituzionalizzata nelle scuole e nella società e il tasso di alfabetizzazione raggiunto un livello molto alto. Ha portato avanti l’industrializzazione e la collettivizzazione guidando la popolazione dalle campagne verso i centri urbani.
Il modello della rete dei soviet nazionali e dei villaggi di lavoro di Skypnyk in Ucraina venne ripreso e adattato anche per le politiche di korenizatsiia in Bielorussia, dove era urgente il problema della minoranza ebraica, e nella zona del Caucaso. L’applicazione del modello ucraino ad altri stati dimostrò come l’Unione Sovietica divise la popolazione in due categorie differenti, su criterio regionale e economico, in nazioni occidentali e orientali. Questa suddivisione però rifletteva anche la divisione in stati più o meno arretrati economicamente e culturalmente, quest’ultimi erano la maggioranza in Unione Sovietica e per loro il governo centrale faceva pesare maggiormente la nuova politica nazionale. La politica applicata era la medesima ma vi era differenza nell’esecuzione in quanto nelle regioni orientali, prevalentemente la zona del Caucaso, vi era la mancanza di una classe dirigente in grado di portare avanti le politiche economiche centrali e il livello di istruzione era molto basso. Inoltre la struttura tribale sociale e la popolazione ancora maggiormente nomade impedivano il completo sviluppo di un’autocoscienza nazionale, importante per lo sviluppo economico dell’area caucasica in funzione dell’industrializzazione centrale. Mentre in Ucraina e nelle nazioni occidentali restava una relativa autonomia per quanto riguarda l’applicazione della politica delle nazionalità e la gestione era affidata ai vertici del partito nazionale, nelle nazioni orientali e specificamente nella zona del Caucaso il Comitato Centrale ne prese le redini applicando direttamente le direttive centrali di Stalin. Nel 1928 iniziò un vero e proprio scontro decisivo tra lo stato bolscevico e i contadini a partire dalla campagna di requisizioni forzate partita all’inizio di quell’anno, che fu contrassegnato dall’inizio di cinque anni di violenze e repressioni culminate nelle grandi carestie del 1931-1933. Particolarmente acuto fu il conflitto contadino in Ucraina culminato nelle grandi requisizioni di grano, che portarono alla carestia del 1933, convincendo Stalin a rivedere totalmente la politica di korenizatsiia. Sostanzialmente Stalin non aveva previsto le agitazioni che scoppiarono in seguito alle requisizioni ne tantomeno gli scontri che si verificarono tra minoranze etniche nei distretti nazionali sia orientali che occidentali. Inoltre aveva sottovaluto la resistenza del partito centrale russo nei confronti della politica di korenizatsiia, restio a concedere ruoli di vertice alle popolazioni indigene e locali, per cui molti amministratori locali russi ostacolarono il processo di autodeterminazione. Questi fattori convinsero il leader sovietico a rovesciare la precedente politica e combattere l’esplosione dei conflitti e delle agitazioni attraverso le deportazioni e il ricollocamento delle popolazioni coinvolte, utilizzando arbitrariamente il sistema delle quote nazionali senza alcun criterio oggettivo e seguendo una precisa strategia di controllo. La priorità era data alla completa realizzazione dei piani quinquennali per l’industrializzazione del paese in vista dello sforzo bellico di cui Stalin era assolutamente convinto e per la raccolta delle risorse necessarie in grado di sostenerlo, soprattutto attraverso le grandi requisizioni del grano.
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