Un triangolo di facile configurazione è quello tra tre protagonisti della seconda guerra mondiale. Morto Stalin se ne fa un altro, L’ora più buia e Sono tornato.
L’ultimo titolo è un rifacimento di Lui è tornato, film tedesco a sua volta tratto da un libro di successo. Cosa succederebbe se Hitler resuscitasse nella società contemporanea? La versione italiana, meno felice e priva di alcune sfumature importanti rispetto all’originale (che pure insegue in larghissima parte della trama) si interroga su un Mussolini resuscitato nell’Italia del 2017, “invasa” dalla controffensiva africana e apparentemente irriconoscibile. Come l’alleato tedesco nel 2015, il Duce si impegna a riconquistare la fiducia del suo popolo, accettando di utilizzare il mezzo televisivo (e i video di YouTube).
In Germania la seconda occasione del Führer ha avuto un sapore più politico, rispetto alle scelte italiane. Da noi il fascismo sembra quasi depotenziato nei suoi elementi politici e ideologici, tanto da ritrovare il regista pronto a raccontarci che Alessandra Mussolini «si è divertita e non si è sentita offesa». La guida del nazismo risorta ci introduceva alla politica contemporanea con riferimenti puntuali: rimuovendo la Linke (nemmeno citata), offendendo la CDU di Merkel, deridendo i socialdemocratici, individuando nei Verdi la realtà più interessante. La galassia dell’estrema destra viene denunciata, seppure in chiave amaramente satirica. La voce fuoricampo del redento fascista riduce al populismo tutto il panorama del presente, con una sequenza che accomuna Salvini, Renzi, Grillo e Berlusconi. Il rapporto della Penisola con il suo ventennio di inizio Novecento pare essere più una questione di costume che occasione di denuncia delle riaccese pulsioni razziste, mai scomparse in tutte le società europee. A consigliare di recuperare anche la visione di Lui è tornato si rischia di passare per quelli che sono sempre pronti a considerare più verde l’erba del vicino, ma il confronto tra le due operazioni è un utile esercizio della ragione, prescindendo dai giudizi sulle scelte tecniche (o sulla qualità della recitazione). Quello che ci propongono le nostre sale cinematografiche pare essere una conferma dell’idea di noi stessi, anziché una effettiva problematizzazione di ciò che viviamo.
In tal senso tornano in mente le altre due pellicole citate all’inizio di questo articolo.
La Guerra Fredda è finita. Il capitalismo si è dichiarato vincitore, ma l’ossessione per l’incubo sovietico non si è sopita. Uno spettro continua ad aggirarsi nelle sale del vecchio continente, mentre la barbarie nazifascista si ammanta delle nuove vesti più adatte al sistema di informazione (in Sono tornato Mussolini è incalzato da un Mentana nella realtà compiacente con le iniziative di CasaPound).
La priorità, per larga parte del sistema culturale di intrattenimento, è l’equiparazione tra svastica e falce-martello. L’abbraccio tra socialismo e industria cinematografica statunitense appartiene a un passato a cui è legato con un filo sempre più flebile (eccezione utile di essere ricordata è L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo).
La storia si piega alla narrazione dalla sua nascita, è iscritta nelle sue stesse origini la dimensione del mito. La costruzione di identità collettive non può prescindere da un rapporto con la memoria.
Così sarebbe ingenuo scandalizzarsi per l’operazione di Joe Wright ne L’ora più buia, dove un memorabile Gary Oldman veste i panni di Wiston Churcill. Provocatoriamente verrebbe però da chiedersi perché la qualità di questa opera le permetta di subire meno supponenza dei film di Ridley Scott, sul piano dell’uso del passato: la verosimiglianza non rende forse più pericolosa la manipolazione delle informazioni? Le licenze poetiche con cui il protagonista inglese del secolo scorso viene reinventato sono perfette sul piano artistico e narrativo ma funzionali a una propaganda precisa.
Morto Stalin se ne fa un altro traduce su schermo un fumetto francese di Fabien Nury e Thierry Robin (La morte di Stalin). Ottusamente qualcuno potrebbe indignarsi per il modo in cui viene demitizzato il passaggio di potere all’ombra del Cremlino, dopo la morte del “piccolo padre”: invece le parti più divertenti sono proprio quelle attente a mostrare la banalità dell’essere umano in ogni sua dimensione. A stonare è il preteso coraggio di un’operazione pronta a sposare la retorica dei vincitori, apprezzata soprattutto da una sinistra europea infelicemente convinta di doversi scusare di qualcosa, dopo aver drammaticamente perso le prime sfide del XXI secolo. Non è con la retorica che si prevengono le nostalgie di cui siamo testimoni con sempre maggiore facilità.
All’indomani del Giorno della Memoria è necessario ritornare su quanto le istituzioni siano in grado di tutelare i valori democratici conquistati con la sconfitta del nazifascismo. Poco. Le priorità sono cambiate e l’oggi è figlio di decenni passati a egemonizzare l’occidente con la narrazione di un blocco occidentale attento a difendere le nostre libertà (in questo senso l’ultimo film di Spielberg, The Post, è un capolavoro da non perdere).
Così mentre a reti unificate si continuano a condannare Hitler e Mussolini, mentre il sistema di informazione alimenta paura e razzismo, il comunismo continua a essere accusato di crimini efferati o perbenismo, a seconda della modalità scelta.
Il "racconto" è a senso unico, rendendo pericolose le semplificazioni. Non ci sono campi di concentramento liberati dai sovietici, non esistono processi articolati: ci sono i buoni (noi) e i cattivi (gli altri, chiunque essi siano).
Nazismo e fascismo sono stati sconfitti nel 1945, il [post]comunismo continua a essere un problema attuale, perché favorisce l’invasione dei migranti dai salotti bene in cui si sarebbe insediato, avvelenando le democrazie di scuola anglosassone... Quando i sostenitori di questa impostazione si ritrovano poi a dover fare i conti con Trump, si stupiscono di come la società sia priva di anticorpi rispetto alla barbarie.
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