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Marwan Barghouti è stato, nell'ormai lontano 2002, il primo parlamentare del Consiglio Legislativo Palestinese ad essere imprigionato in un carcere israeliano. Il militante per i diritti dei palestinesi rappresenta una delle voci più autorevoli della causa nel mondo: pur esprimendo una critica alle posizioni assunte da Al Fatah, partito di cui è esponente, non scade nel facile e alle volte nocivo appoggio ad Hamas.
Da mesi si discute, ci si riunisce e ci si anima con trasporto sotto la cupola del Duomo di Brunelleschi.
Firenze è il comune più grande che va al voto in questa primavera 2014.
Renzi ascendeva sempre di più, sempre di più si percepiva l’importanza di questo appuntamento elettorale.
Più cielo per tutti. Ma con tante nuvole, e di tempesta per giunta. Eccezion fatta per gli addetti ai lavori, e neppure per tutti, è stato un fulmine a ciel sereno la notizia dell'esito del congresso nazionale dell'Arci, svoltosi a Bologna quest'ultimo fine settimana, da giovedì a domenica e chiusosi con un doloroso niente di fatto.
Una delle più grandi, ultime, organizzazioni laiche e di massa in Italia, proveniente dalla più consolidata delle tradizioni unitarie, al punto di non aver mai affrontato in quasi sessant'anni di storia un appuntamento congressuale diviso fra due candidati, è piombata in pochi giorni in una specie di incubo, attraverso il quale si è infranto l'antico “ecumenismo” da casa comune della sinistra italiana, forgiato nel culto di quella “sintesi” che tanto era cara alla tradizione progressista all'ombra del PCI.
Eppure la sintesi fra Filippo Miraglia e Francesca Chiavacci, rappresentanti rispettivamente di due visioni dell'associazione che si radicano territorialmente in aree geografiche ben distinte, principalmente a sud, in Liguria e nel Nord-Est il primo e nelle storiche regioni rosse (foriere di quasi metà delle tessere) la seconda, era stato dato nei pronostici come probabile fino alla fine. Speranze probabilmente fiorite fra le file di un'organizzazione oggettivamente inesperta di congressi battuti a colpi di fioretto dal palco e in mezzo alla platea dei 579 chiamati al voto, delega in vista e coltello fra i denti. Uno scenario al quale domenica hanno invece assistito, fra il partecipe e l'incredulo, tutti i presenti nel Salone del Podestà del palazzo di Re Enzo.
Da una parte, quindi, gli storici insediamenti della Toscana, dell'Emilia Romagna e del Piemonte, nati presso le case del popolo con i loro servizi e le conseguenti forme di organizzazione dell’esistente, ma anche con sensibilità vicine ai partiti politici che in questi anni hanno governato quei territori. Dall’altra le giovani leve cresciute nei movimenti dei Social Forum, da Genova a Porto Alegre, che oggi rivendicano non solo un cambio generazionale, ma un’Arci molto più schierata, assolutamente non neutrale rispetto alle grandi questioni che in queste sedi si discutono: un nuovo modello di sviluppo, la lotta al precariato, un’alternativa per l’Europa, e dunque di conseguenza con forme organizzative più flessibili e inclusive. Due sensibilità che però paradossalmente si scambiano di ruolo, per ciò che ci si potrebbe attendere, nel momento che si va a vedere il rapporto con la vecchia dirigenza. Al centro di tutto le modalità con le quali utilizzare i soldi del tesseramento e non solo, al fine di gestire un debito crescente dell'organizzazione, accumulato negli ultimi anni. Una situazione non facile che molte parti dell'associazione, in modo trasversale, spinge molti a guardare ad una riorganizzazione dei quadri dirigenti.
Il campo di battaglia, neanche a dirlo, è stata la commissione elettorale. Tale infatti il consesso dal quale l'ultima decisiva spaccatura si è consumata, materializzandosi all'ora di pranzo, in un crescere di tensione, in due contrapposti meccanismi elettorali per la composizione del consiglio nazionale (75 proporzionale e 25% a tutela delle regioni «di frontiera», oppure rispettivamente 65% e 35%), organo adibito all'elezione del presidente. Il picco della tensione si è avuto però quando, in merito al voto su queste due opzioni, chiaramente due composizioni matematiche prive del minimo spirito di sintesi ed entrambe volte a favorire l'uno o l'altro schieramento, c'è stata la richiesta da parte del gruppo Miraglia di voto segreto. Una proposta discutibile più nella prassi che nei regolamenti, contro la quale però si è scagliata la risposta durissima dell'altro fronte, capitanato dalle delegazioni di Toscana ed Emilia che hanno minacciato a quel punto di abbandonare il congresso. Momenti concitati, tavolo di presidenza assediato, proposta di voto segreto ritirata. Ma il fronte Miraglia a questo punto non ci sta e si tira indietro sul voto. E' a quel punto, dopo una pausa di mezz'ora circa, che salta fuori fra le contestazioni la proposta di congelare il congresso, da riconvocare entro il 30 giugmo. Il “comitato dei garanti”, soluzione fin troppo nota alle cronace della sinistra degli ultimi tempi, sarà composto dai 17 presidenti regionali dell'Arci più il presidente uscente Paolo Beni.
Una situazione, in definitiva, figlia di una mediazione decisamente tardiva, iniziata ingenuamente da parte delle “colombe” e dello stesso presidente uscente solo nelle ultime concitate ore del congresso. Ma anche l'esito paradossale di un'organizzazione statutariamente impreparata ad affrontare uno congresso “a mozioni” che invece non si era realizzato in tutti i passaggi intermedi, nei congressi territoriali e regionali. Una platea composta con criteri unitari, mettendo peraltro in pratica tutte le assodate dinamiche di compensazione della debolezza storica di certe regioni del sud (spesso rappresentate oltre il mero criterio del numero di tessere).
Resta, comunque, l'evidenza di una crisi, analoga a quella che sta attraversando un'altra organizzazione già legata alla sinistra italiana, la Cgil. Ennesimo sintomo di un processo ormai evidentemente in atto a sinistra e che non accenna a diminuire. Nel cielo per tutti anche per oggi non si vola.
L'undici marzo è una data che è entrata a far parte della storia giapponese, tre anni fa, proprio in quella data il Sol Levante veniva colpito da un terremoto (con conseguente tsunami) che ha strappato la vita di migliaia di giapponesi, distrutto l'economia di intere Prefetture e causato un disastro nucleare che non cessa di destare preoccupazione nell'opinione pubblica mondiale.
A tre anni di distanza migliaia di vittime di quella catastrofe vivono ancora in abitazioni temporanee a causa delle difficoltà economiche che hanno colpito molti degli abitanti di quelle Prefetture, le cui fonti di reddito sono state spesso distrutte insieme alle case, numerosi sono coloro che non possono permettersi un affitto e che attendono case in edilizia residenziale pubblica che debbono ancora essere costruite.
Dall'annuncio del nostro amato (ex) sindaco, come suo costume del tutto privo di contenuto e buttato li solo per fare clamore, un po' chiunque si è cimentato nel criticare una cosa che non c'era (anche con effetti piuttosto ridicoli) . Pochi altri, magari un po' ingenuamente, hanno colto la possibilità offerta dal clamore mediatico del jobs act (poveri noi!) di rilanciare un dibattito sul lavoro, non criticando il piano invisibile di Renzi ma offrendo le proprie idee alla discussione (più o meno consapevoli che il loro sforzo intellettuale andrà sprecato, invero). Può quindi questo giornale sottrarsi alla sfida di dire delle clamorose ovvietà sul mercato del lavoro che dovrebbero essere scontate per tutti e che, quindi, non vedranno mai il voto in parlamento? Certamente no!
E quindi, here is our jobs act.
1. I rapporti di lavoro
Un po' come chiunque, e siamo consapevoli di essere banali, anche noi riteniamo imprescindibile una riduzione delle forme contrattuali messe a disposizione negli anni dal legislatore ai datori di lavoro, con l'esplicito intento di confondere la materia in modo da rendere più facile operare nell'illegalità sicuri di farla franca davanti all'ispettore della Direzione Territoriale del Lavoro o davanti al giudice. Un cambio di rotta importante sarebbe cominciare a chiamare le cose con un nome solo.
La storia coloniale del Giappone rimane tema di quotidiano dibattito politico: l'ultima vicenda in ordine di tempo riguarda la revisione del comunicato di Kono (all'epoca Segretario generale del Gabinetto, una posizione simile al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio in Italia) del 1993 nel quale si riconosceva ufficialmente la schiavitù delle cosiddette comfort women.
A richiedere la revisione del comunicato Hiroshi Yamada, parlamentare del Partito della Restaurazione del Giappone. Il premier Abe ha espresso “gratitudine” per questa richiesta. Forte opposizione è stata manifestata dal Partito Comunista tramite il parlamentare Kenji Kokuta.
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