Domenica, 23 Marzo 2014 00:00

Per la liberazione di Marwan Barghouti

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Marwan Barghouti è stato, nell'ormai lontano 2002, il primo parlamentare del Consiglio Legislativo Palestinese ad essere imprigionato in un carcere israeliano. Il militante per i diritti dei palestinesi rappresenta una delle voci più autorevoli della causa nel mondo: pur esprimendo una critica alle posizioni assunte da Al Fatah, partito di cui è esponente, non scade nel facile e alle volte nocivo appoggio ad Hamas.

In Italia, come in molti altri paesi del mondo, molte associazioni e persone si sono mobilitate a sostegno della campagna per la liberazione di Marwan Barghouti e dei prigionieri politici palestinesi (clicca qui). Un comitato di sostegno si è formato anche a Firenze e lo scorso venerdì la sede dell'Arci in Piazza dei Cimpi ha ospitato la prima iniziativa di lancio. La campagna ha cominciato a prendere forma a partire dalla Dichiarazione di Robben Island, del 27 ottobre 2007, su iniziativa della Kathrada Foundation (per chi non lo sapesse, Ahmed Kathrada è stato il politico sudafricano che nel 1962 lanciò la campagna internazionale per la liberazione di Nelson Mandela) e della moglie del militante, Fadwa Barghouti. La scelta del luogo della firma, esattamente la cella nella quale il leader anti apartheid trascorse i suoi anni di reclusione a Robben Island, non può essere definita casuale: sono molte, infatti, le analogie che legano i due uomini. Tutti e due sono arrivati a ricoprire incarichi istituzionali partendo dall'organizzazione della difesa dei diritti del proprio popolo, tutti e due sono stati reclusi e privati della loro libertà nel tentativo di mettere a tacere le tanti voci che hanno fatto innalzare in richiesta di giustizia e tutti e due sono diventati punti di riferimento imprescindibili per chi lotta, secondo le proprie possibilità, per la difesa dell'autodeterminazione dei popoli nel mondo.

La questione dei prigionieri politici palestinesi va assumendo dimensioni sempre più drammaticamente enormi: parliamo di una cosa come 800,000 persone imprigionate dal 1967 ad oggi. Come ha spiegato Randa Wahbe di Addameer, associazione per il supporto e la difesa dei diritti umani dei prigionieri, nel momento in cui un palestinese viene arrestato, questo viene sottoposto alla legge marziale israeliana e al giudizio, quindi, di un tribunale militare israeliano. La legge prevede che un arrestato possa essere fermato per 90 giorni, 60 dei quali possono vedere interrogatori durante i quali sono vietati la presenza dell'avvocato della difesa ed ogni contatto con il pubblico. Per gli avvocati della difesa è molto difficile elaborare una strategia di difesa dal momento che tutti i documenti del processo, essendo emanati da un tribunale militare, sono segretati ed accessibili solo a membri dell'esercito. È così facile capire come il 99,7% dei processi (che spesso hanno una durata che si aggira attorno ai tre minuti) si concluda con una condanna per l'arrestato. Se andiamo a dare un occhio a quelle che sono le cause della condanna, ci viene da sgranare gli occhi: secondo la legge israeliana, è reato anche scende in piazza per manifestare, avere in tasca la tessera di un partito “scomodo” o scrivere su un muro per sfogare la propria rabbia. Sconvolgente è il caso di Alì Shamlawi e di altri quattro ragazzini di Hares (clicca qui per saperne di più), arrestati con l'accusa di tentato omicidio ed in carcere da una anno. Il tutto per avere lanciato delle pietre per la strada. Oggi si contano circa 5068 prigionieri politici (di cui 195 minori e 13 parlamentari del Consiglio Legislativo Palestinese) reclusi in carceri che si trovano in territorio israeliano: il fatto che i condannati non siano detenuti in territori occupati fa si che la separazione dalla famiglia e dai sostenitori sia totale dal momento che per qualsiasi visita occorre entrare formalmente nello stato di Israele.
Ma il travaglio di tribunale e carcere non è il solo destino che può attendere un prigionieri politico palestinese: come retaggio del mandato britannico in Palestina, lo stato israeliano continua a prevedere la detenzione amministrativa. Uno strumento che non è sottoposto ad alcun controllo o limite dal momento che una persona può essere detenuta, senza ricevere spiegazioni, per un periodo illimitato di tempo, senza sapere se e quando terminerà la sua privazione di libertà.

L'utilizzo delle minacce e della tortura sono all'ordine del giorno: i prigionieri vengono legati in posizioni scomode e usuranti e lasciati così per ore, ammanettati per tempi interminabili l'uno all'altro, minacciati con cani, picchiati e bruciati con sigarette. Si contano almeno 73 prigionieri morti a causa della tortura delle autorità israeliane e questi trattamenti non vengono risparmiati ai minori.

Anche i meno attenti a ciò che accade in giro per il mondo dovranno constatare la drammaticità della situazione. Le continue violazioni dei diritti umani e della libertà del popolo palestinese condotte dal governo israeliano causano tiepide reazioni da parte di stati che sono però sempre repentini nel puntare il dito e a difendere la democrazia quando torna comodo. Non solo per fattori geopolitici difficili da scardinare ma anche per interessi economici che fruttano affari da miliardi di euro. È ad esempio il caso della compagnia G4S, a cui è appaltata una grossa fetta della sicurezza israeliana: l'azienda, inglese ed olandese, è di fatto complice della violazione dei diritti umani dei palestinesi gestendo la sicurezza e fornendo equipaggiamento alle prigioni, ai check point e al muro dell'apartheid israeliani (clicca qui per più informazioni). Molte associazioni hanno aderito alla campagna Stop G4S ma evidente che in un mondo globalizzato come il nostro, dove tutto ha un prezzo e può essere venduto, anche la violenza, poco possono la volontà e l'organizzazione delle associazioni se una risposta forte non proviene anche dagli stati.

È ora che ognuno si assuma le proprie responsabilità, soprattutto in Europa, dove tutti si scoprono bravi a discutere di diritti umani e a citare le sentenze della Corte di Strasburgo per poi, puntualmente ignorarle nel momento in cui sarebbe richiesta una presa di posizione netta. La condizione degli oltre 5000 prigionieri palestinesi è il punto nodale dei negoziati di pace intavolati dal Segretario di Stato statunitense Kerry: da qui passa necessariamente la strada la per la pacificazione della Palestina e per la costruzione di un futuro che preveda diritti e libertà per chi lotta da così tanto tempo. D'altra parte, come diceva lo stesso Mandela, “Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”.

Immagine tratta da: www.qcodemag.com

Ultima modifica il Venerdì, 21 Marzo 2014 23:50
Diletta Gasparo

"E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa"

Cit.

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