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“Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa”
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
Se a trent’anni prendi un fornellino in mano e ti dai fuoco, volontariamente, significa che qualcosa non va. E come non pensare che, se a darsi fuoco lo scorso 23 novembre è stato un ragazzo recluso nel “rinomato” carcere di Sollicciano, molto probabilmente le condizioni all’interno della struttura non hanno influito nella decisione?
Il carcere della città di Renzi è ormai argomento trattato frequentemente dai giornali locali. Il problema del sovraffollamento ha raggiunto dimensioni tali da non renderlo più gestibile: dove ci sarebbe posto per ospitare 450 detenuti, ne sono stipati, ad oggi, circa mille. Gran parte di queste persone sono state condannate per reati minori: molti sono stranieri per i quali, essendo questi in attesa di giudizio (si calcola che circa il 40% dei detenuti sia in questa condizione), non sono previste forme di pena alternative (come i domiciliari).
Considerando quindi lo stato delle cose, come meravigliarsi se le persone che sono costrette tra le sbarre in condizioni simili, ricorrono anche all’ultimo strumento di protesta che resta loro, lo sciopero della fame? Da settimane oramai i detenuti, assieme al Garante fiorentino dei Diritti dei Detenuti, Franco Corleone, e ad alcuni deputati, hanno iniziato uno sciopero della fame a staffetta che continuerà fino a quando il governo non presterà attenzione alle loro richieste. Richieste molto semplici, che sono state ritenute più che condivisibili anche dal Consiglio Superiore della Magistratura. Dato che il sovraffollamento è dovuto alla grande presenza di detenuti condannati per reati relativi alla legge Fini-Giovanardi sulle droghe, sarebbe gesto ragionevole de-criminalizzare alcune condotte o quantomeno prevedere per certi reati forme di pena alternative.
Ho atteso il risultato delle primarie del centro-sinistra (!) e l’esito dell’Assemblea nazionale di “Cambiare si può!” per questa riflessione sulla relazione inscindibile tra la struttura sociale come si presenta oggi, i molteplici soggetti dell’azione politica e le istituzioni: in breve tra il cittadino e i vari livelli di potere e quanti hanno occupato lo spazio politico con l’obiettivo esclusivo di detenere il potere ad ogni livello. Indubbiamente la società è molto articolata e non esistono contenitori in grado di rappresentarla in maniera soddisfacente ed adeguata.
Un’estrema frammentazione ha portato alla nascita di soggetti dell’azione politica diametralmente opposti: alcuni che si fondano su interessi particolari e, in certi casi, fortemente identitari; altri con la caratteristica del contenitore omnibus dal quale si scende e si sale a piacimento o per convenienza; altri ancora con forti caratteri e modalità di azione populistiche e fortemente influenzati da interessi personali.
Dai risultati delle primarie di coalizione, con l’affermazione di Bersani, ci troviamo di fronte ad una duplice lettura della linea politica che ha vinto: quella che sostiene il governo Monti con l’adesione alle politiche dell’Unione Europea e delle altre istituzioni comunitarie o una proposta alternativa e molto annacquata di socialdemocrazia europea attenta alle politiche sociali e non assoggettata alla finanza internazionale e al sistema bancario? È lecito chiedersi se la coalizione guidata dal PD dovesse affermarsi alle elezioni politiche si porrebbe come interprete delle istanze che sono la manifestazione della disperazione, dell’emergenza sociale e della paura del domani e che si sono impadronite di settori sempre più ampi della società e tradurrebbe questo in provvedimenti legislativi volti direttamente ad incidere sui problemi del lavoro – disoccupazione e precarietà –, sul sistema pensionistico, sugli investimenti pubblici, sulla riduzione delle spese militari, sull’introduzione della patrimoniale, sull’evasione e l’elusione fiscale, sul sistema bancario e sul potere incontrollato della finanza internazionale.
Premettiamo subito una valutazione di insieme: la Toscana continua ad evitare gli scogli più rischiosi della crisi, ma è solidamente agganciata al convoglio del declino europeo, da cui, in questa fase non è possibile sganciarsi, e comunque non sarà facile farlo neanche in futuro. Infatti i dati fondamentali della crisi e del suo svolgersi sono determinati da una parte dalle politiche economiche nazionali ed europee di tipo recessivo, dall’altro dalla composizione strutturale del sistema produttivo.
Le politiche possono incidere solo con gradualità e lentezza sul secondo aspetto; sul primo aspetto è evidente come una svolta forte potrebbe essere resa possibile solo in un gruppo di paesi sufficientemente forti (e comunque è improbabile che succeda qualcosa prima delle elezioni tedesche). Tuttavia, fra i costi della crisi vanno senz’altro imputati anche quelli di un continuo degrado delle capacità produttive e delle condizioni sociali che le politiche dominanti non possono e non vogliono evitare. Ma vediamo alcuni dati fondamentali che descrivono lo stato dell’economia toscana in questi frangenti.
Dato che dobbiamo costruire il Paese, costruiamo repertori, enciclopedie, dizionari. (Antonio Gramsci)
Linguaggio e gergo non sono la stessa cosa, il Treccani definisce il primo termine come “la capacità e la facoltà, peculiare degli esseri umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di informare altri esseri sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna”; il secondo come “ogni parlare allusivo, indiretto, non esplicito e quindi poco comprensibile o enigmatico”. Ogni attività umana, dalla più semplice alla più complessa, necessita di un proprio linguaggio per comunicare in maniera efficace concetti e idee, per indicare cose e modi di operare. Da questa prassi sono derivati linguaggi specifici o specialistici in diverso grado, ma con un’evidente tendenza a “democratizzarsi”, a passare cioè da “gergo” di iniziati a “linguaggio” comprensibile se non a tutti comunque a molti. La pratica quotidiana di luoghi, ambienti, servizi, pratiche sociali, dalle quali le masse popolari erano precedentemente escluse o ammesse in posizione subalterna, ha contribuito alla “democratizzazione” del linguaggio.
Non è necessario essere medici per sapere cosa significano, almeno in grandi linee, parole come “parto cesareo” o “antibiotico”, molti, anche totalmente digiuni di tecniche operatorie o di chimica farmaceutica, sanno che si tratta di un parto assistito chirurgicamente e di un farmaco che combatte le malattie infettive. Altri settori, sui quali si esercita un largo interesse popolare, questa “democratizzazione” è stata più accentuata: “calcio d’angolo”, “rigore”, “fuori gioco”, “specchio della porta”, sono termini ben conosciuti. In ultima analisi si può affermare che lo stato sociale, nelle sue varie manifestazioni, fra le altre cose, ha anche prodotto una “democratizzazione” del linguaggio, cioè una maggiore consapevolezza delle masse popolari.
Ho argomentato altrove (su “Controlacrisi” e su www.Liberaroma.it) che le primarie sono “un’americanata a Roma” degna di Alberto Sordi, e però un’americanata tutt’altro che innocua, perché le primarie alludono allo stravolgimento della Costituzione (anzi lo praticano già!) prefigurando un Presidente del Consiglio (ma loro dicono: “premier”) eletto direttamente dal popolo, e non invece nominato dal Presidente della Repubblica e votato dal Parlamento, come la nostra Costituzione prescrive (cfr. gli artt. 92, 93 e 94 della Costituzione). Insomma le primarie sono culturalmente del tutto interne alla logica della Repubblica presidenziale, di un “unto del Signore”, a cui viene affidato per via plebiscitaria tutto il potere, senza alcuna mediazione democratica di tipo parlamentare. E non sono forse già, le primarie, un plebiscito personale, per scegliere il “capo”? Confesso che mi fa scorrere un brivido nella schiena il “combinato disposto” fra le ondate di populismo autoritario che la crisi capitalistica porta con sè in tutta Europa e il possibile presidenzialismo (che peraltro era già previsto dall’accordo alla bicamerale D’Alema-Berlusconi, poi fatto saltare da quest’ultimo). Pensiamo cosa sarebbe successo se un simile regime di investitura diretta del “premier” fosse già stato vigente e se Berlusconi avesse potuto presentarsi come espressione diretta della volontà popolare.
Migliaia di metalmeccanici della CGIL hanno attraversato ieri Firenze, da Piazza Indipendenza a Piazza Strozzi, in occasione dello sciopero generale indetto dalla FIOM. Una mobilitazione distribuita su due giorni (in contemporanea con il capoluogo toscano piazze a Milano e Ancona, oggi tutte le altre regioni) e convocata contro la decisione di Federmeccanica di siglare un accordo separato con Fim e Uilm per il rinnovo del contratto nazionale di categoria. L'intesa esclude dal tavolo l'organizzazione di Landini (senza che l'accordo – come chiede la FIOM – possa essere votato nelle fabbriche dai quasi 2 milioni di lavoratori interessati) e, di fatto, estende a tutto il settore il “modello Marchionne”.
Come ricordato nell'intervento conclusivo da Giorgio Airaudo, il combinato disposto del patto per la produttività (sottoscritto dal governo con le parti sociali senza la CGIL) e dell'accordo separato dei metalmeccanici produrrà lo svuotamento dei contratti nazionali e la possibilità di derogare su tutti i diritti fondamentali azienda per azienda.
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