Venerdì, 12 Dicembre 2014 00:00

Se Israele uccide un ministro palestinese

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Ziad Abu Ein il 10 dicembre si trovava nel villaggio di Turmusia, in Cisgiordania, per piantare degli ulivi. Il popolo palestinese vive in gran parte di allevamento, pesca e agricoltura. O almeno ci prova, dal momento che l'esercito israeliano, in quanto forza di occupazione a tutti gli effetti, nega l'acqua ai contadini che devono innaffiare i propri campi, spara sui pescatori che escono in mare con le barche. E, questa volta, uccide un ministro dell'ANP che protestava assieme a dei contadini contro la confisca di terre (qui il video della protesta).

Il ministro dell'ANP è morto il 10 dicembre mentre veniva trasportato in ambulanza in ospedale per le percosse subite nella mattina durante il presidio pacifico. Le reazioni sono state immediate. Una folta folla ha accolto la salma arrivata a Ramallah e ad aggravare la tragedia si è aggiunto il ferimento di un quattordicenne da parte dell'esercito israeliano che cercava di reprimere con la forza le proteste degli abitanti del campo profughi di Al Jalazon, proprio vicino Ramallah. Adesso Raouf Hussein Snubar è ricoverato in gravissime condizioni, lottando per la vita.

Le dichiarazioni delle autorità palestinesi sono state fortissime: subito Al Fatah ha interrotto la cooperazione alla sicurezza con Israele e la governatrice di Ramallah ha definito l'accaduto come un vero e proprio atto di guerra. D'altra parte, Israele ha rinforzato la non certa esigua presenza di occupazione nella West Bank inviando altri due battaglioni.

È evidente che dai bombardamenti di quest'estate, a cui in pochi paiono pensare ancora, la situazione in Palestina stia precipitando. Da una parte abbiamo uno stato terrorista che fa carta straccia del diritto internazionale occupando terre ed uccidendo persone che non ricadono sotto la sua giurisdizione. Dall'altra parte c'è un popolo che oramai ha superato la soglia di sopportazione. Tra deportazioni, morti in carcere, abusi, sequestri e distruzione dell'economia per il loro sostentamento, per i palestinesi è difficile oramai vedere una soluzione che non passi per la resistenza armata.

“Scegliere la resistenza armata e globale significa essere fedeli alle idee di Arafat e ai suoi principi per cui decine di migliaia di martiri sono morti. E’ doveroso riconsiderare il nostro modo di resistere per sconfiggere l’occupante [Israele, ndr]”

Queste parole sono state scritte lo scorso 12 novembre da Marwan Barghouti, una delle voci più autorevoli della resistenza palestinese. Membro di Al Fatah, da sempre critico verso la linea morbida messa in atto dal partito, ma dall'altra parte non accusabile dell'intransigenza tipica di Hamas (e forse proprio per la sua credibilità, gettato in carcere da anni), anche Barghouti arriva ad affermare che ormai le strade percorribili non sono molte.

Forse le cose potrebbero avere una soluzione parzialmente diversa se la comunità internazionale si decidesse a giocare, una volta per tutte, un ruolo incisivo nella vicenda. Si stanno moltiplicando a vista d'occhio i casi di parlamenti in tutto il mondo che riconoscono ufficialmente lo stato palestinese (Dalla Svezia alla Spagna passando per il Regno Unito, solo per citarne alcuni). Il punto vero è che quello che serve è un passaggio ulteriore. La tiepidezza con la quale gli stati occidentali supportano la causa palestinese è ben riassunta dalle dichiarazioni del Ministro degli Esteri Gentiloni in occasione dell'uccisione del collega: “Quanto è avvenuto aggrava la nostra preoccupazione per la crescente tensione nell'area: rinnovo l'appello a tutte le parti a dare prova di responsabilità ed evitare comportamenti che possano implicare un ulteriore deterioramento del già fragile quadro”. Alla richiesta di un'indagine che faccia chiarezza portata avanti dalla Farnesina, si unisce anche quella dell'Alto Rappresentanti della PESC dell'Unione Europea Federica Mogherini.

Si continuano a mettere su uno stesso piano occupante ed occupato, stato terrorista e popolo sottomesso. Con la paura che qualunque dichiarazione più audace possa essere considerata come una negazione del diritto all'esistenza dello stato israeliano, ancora nessuno ha cominciato a parlare pubblicamente di sanzioni a Israele. Colpire gli interessi economici dello stato affinché questo interrompa le proprie politiche di occupazione e agire affinché negli organismi internazionali, come la Corte Penale Internazionale, sia data massima rilevanza alle violazioni perpetuate da Israele. Questo significherebbe veramente stare dalla parte del popolo palestinese.

Immagine tratta da: www.nbcnews.com

Ultima modifica il Giovedì, 11 Dicembre 2014 13:05
Diletta Gasparo

"E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa"

Cit.

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