Le varie forme de "sapere", che cerchiamo di organizzare tra divulgazione scientifica (cliccando qui), scienze umanistiche (cliccando qui) e scienze sociali (cliccando qui), sfruttando le pur discutibili suddivisioni del nostro sistema accademico.
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Storie di Nobel
116 anni, 585 Nobel: 892 persone e 27 organizzazioni. Ecco qualche storia che merita di essere conosciuta!
Albert Einstein vinse il Premio Nobel per la fisica nel 1921. Sapete per cosa? Beh, non per la relatività come ci si potrebbe aspettare, ma per la scoperta dell’effetto fotoelettrico1. Non sapete cosa sia? Non siete di certo gli unici! Sappiate però che molti Nobel sono stati vinti con motivazioni molto diverse da quelle che si potrebbe pensare!
50 anni dalla morte: il mito immortale di Ernesto Che Guevara
Sono passati cinquant’anni da quel 9 ottobre 1967 in cui il guerrigliero più famoso del mondo venne assassinato. Una pallottola americana mise fine a una vita intera dedicata alle lotte, di qualsiasi tipo. Non intendo ripercorrere la biografia di Che Guevara, in tanti in questi giorni ci hanno pensato. È più importante capire come mai ancora oggi, noi donne e uomini di sinistra ma non solo, ci ritroviamo a celebrare una ricorrenza che sembra legata a quel mondo pieno di miti e bandiere che era la protesta degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
Tra Scienza e Democrazia. Un percorso necessario.
Viviamo un momento in cui la scienza viene percepita come un pericolo e tende a restare nascosta, ma davvero pensiamo di poter vivere senza di essa?
Sicuramente no, anche se c’è molto lavoro da fare per riallacciare i fili spezzati.
È iniziata la settimana dei Nobel e, devo confessare, aspetto ogni giorno con trepidante attesa per sapere chi si porterà a casa questo ambito premio nelle varie discipline. Ma, senza nulla togliere ai premi per la Pace, per la Letteratura e allo “pseudo-Nobel” per l’Economia1, è nei primi tre giorni di annunci che mi vengono più palpitazioni, quando cioè si conoscono i vincitori, nell’ordine, per la Medicina, per la Fisica e last but not least per la mia amata Chimica.
Genealogia dell'ordoliberalismo - III parte: L'uomo come impresa individuale
Qui la parte I, qui la parte II.
Abbiamo visto nell'articolo precedente come il neoliberismo di matrice tedesca non sia un banale ritorno alle concezioni ottocentesche del laissez faire quanto piuttosto la ricerca di un nuovo ruolo e di un nuovo attivismo dello stato, non più incaricato di ridistribuire le risorse ma bensì di garantire il funzionamento di una economia di mercato vista non come naturale ma come un artificio complesso e delicato in cui ingranaggi devono essere continuamente lubrificati dall'intervento statale.
Ma un nuovo protagonismo pubblico non basta, occorre ripensare anche la società e occorre ripensarla dal punto di vista del mercato. Un nuovo ordine economico fondato sul meccanismo della concorrenza non può reggere se le comunità umane provano a resistere alle sue logiche. Non si può pensare di far funzionare un sistema fondato sulla competizione permanente se gli individui si oppongono alla società mercantilista e se indugiano in atteggiamenti solidaristici o collettivisti. Persino nelle moderne società industriali avanzate, il rifiuto di conformarsi completamente ai meccanismi economici cari a Eucken e soci resta diffuso. Compito dell'ordoliberalismo è quello allora di unire alla politica economica una gesellschaftspolitik, ovvero una politica della società (piuttosto che una politica sociale) volta a proporre un modello bio-economico che conformi l'individuo al meccanismo della concorrenza e alla logica dei mercati.
Nel loro ambizioso e brillante saggio "La Nuova Ragione del Mondo", gli studiosi francesi Dardot e Laval interpretano l'ordoliberalismo come una forma di razionalità che afferma l'interdipendenza di tutte le istituzioni e di tutti i livelli della realtà fra di loro. In particolare:
«tra gli obiettivi della politica è prevista una azione sulla società e sul quadro vitale individuale, che dovrebbe avere lo scopo di rendere i due piani conformi alle necessità del funzionamento del mercato. La teoria ordoliberale indica quindi un ridimensionamento della tradizionale separazione tra Stato, economia e società concepita dal liberalismo classico. Esso abbatte le barriere fra i vari piani, considerando tutte le dimensioni dell'uomo come elementi indispensabili al funzionamento della macchina economica» (P. Dardot & C. Laval, La Nuova Ragione del Mondo, DeriveApprodi 2013, p. 221).
La parola chiave per molti economisti ordoliberali è quella di adattamento. Se il capitalismo, come sosteneva anche Marx, ha la capacità di rivoluzionare continuamente i modi e le strutture di produzione, dall'altro gli individui non si adattano spontaneamente a quest'ordine mutevole, perché le credenze culturali e le pratiche sociali tendono a cambiare molto meno rapidamente del mercato. Su questa base si giustifica una politica focalizzata sulla vita individuale e sociale complessiva: affinché la concorrenza funzioni, occorre trovare un nuovo sistema di vita per tutta l'umanità. L'adattamento va allora inteso come adeguamento dei modi di vita e delle mentalità alle condizioni di funzionamento di un sistema intrinsecamente variabile e fondato su un regime di concorrenza spietata e generalizzata, adattamento che concepito in questi termini necessita appunto di un intervento statale e giuridico capillare.
Ma quale sistema di vita si ipotizza? Che tipo di società auspicano gli ordoliberali? Non certo quella fondata sulle merci e sul consumo, già criticata da Sombart all'inizio del Novecento (vedi la I parte dell'articolo), che rischierebbe di riproporre quella società di massa, dello spettacolo e consumistica che per gli ordoliberali era un'aberrazione da attribuire all'interventismo statale che a sua volta era l'anticamera della degenerazione nazista. Al contrario, con le parole di Foucault:
«[l]a società regolata in base al mercato, a cui pensano i neoliberali, è una società in cui a dover costituire il principio regolatore non è lo scambio delle merci ma sono i meccanismi della concorrenza. Sono questi meccanismi che devono avere la superficie più estesa e il maggiore spessore possibile, che devono occupare inoltre il maggiore volume possibile nella società. Ciò significa che non si cerca di ottenere una società sottomessa all'effetto merce, bensì una società sottomessa alla dinamica della concorrenza. Non una società di supermercato ma una società d'impresa. L'homo oeconomicus che si vuole ricostruire non è l'uomo dello scambio, l'uomo consumatore, ma l'uomo dell'impresa e della produzione» (M. Foucault, La Nascita della Biopolitica, 3a ed. Feltrinelli 2017, pp. 129-130).
Non l'uniformità della merce dunque, ma la molteplicità e la differenziazione delle imprese. Fra gli esponenti della corrente "sociologica" della Scuola di Friburgo, Röpke è sicuramente colui che ha dato il maggior impulso nel teorizzare la perfetta società di mercato. I suoi vagheggiamenti di una "economia umana" in cui il tessuto sociale sarebbe composto da piccole e medie imprese agricole e artigianali secondo il modello dei villaggi della campagna di Berna, riflettono l'utopia di una società di liberi cittadini imprenditori che potendo scegliere in piena autonomia su come gestire la loro attività economica e le proprie strategie di consumo si emanciperebbero dall'omologazione che caratterizza le masse urbane proletarie. Se si vuole scongiurare una "società delle formiche" tipiche del collettivismo socialista ma anche del capitalismo fordista, occorre, a detta di Röpke, generare quella libertà che solo un sistema di imprese in competizione può garantire. Per gli ordoliberali infatti la libertà va di pari passo con la concorrenza, vista, quest'ultima, non solo come il legame interindividuale più efficiente economicamente, ma anche come ciò che permette all'individuo di affermarsi come essere libero, autonomo e responsabile. C'è dunque un progetto umanista di fondo, un tentativo di tratteggiare i contorni di un capitalismo in cui l'uomo, in quanto imprenditore di se stesso e della propria vita, si riapproprierebbe così delle sue facoltà soggettive autentiche. Gli individui che pensano come pensa un impresa, cioè in termini di profitti, entrate/uscite, investimenti e quant'altro, non solo sono più produttivi ed efficienti ma sono anche più liberi e più propriamente umani. Siamo in presenza di una sorta di metafisica della concorrenza e del mito dell'impresa come fondamento di una società di individui liberi economicamente e politicamente.
Non è difficile notare da questo punto di vista delle ambiguità nel sistema teorico ordoliberale. Gli intellettuali di Friburgo, come abbiamo visto, si pongono il problema di una società che da una parte si uniformi alle regole del mercato e che dall'altra eviti le nefaste conseguenze in termini di massificazione, consumismo, urbanizzazione selvaggia, omologazione tipiche dei regimi capitalisti e socialisti a loro contemporanei. Una società in cui lo Stato interviene non per ridistribuire ma solo per garantire alla macchina economica di funzionare correttamente, una società in cui il legame sociale è mantenuto grazie alle logiche concorrenziali, una società in cui ogni individuo è libero in quanto proprietario e imprenditore, una società in cui l'autenticità si può ricostruire ridando dignità a un lavoro sottratto alla schiavitù della spersonalizzazione fordista, una società deurbanizzata e a misura d'uomo, è una società vista dagli ordoliberali come l'unico antidoto possibile alla decadenza spirituale. Ma il paradosso è che nel tentativo di sottrarre la società agli effetti negativi delle logiche di mercato, gli ordoliberali in realtà non fanno altro che proporre una società ancora più sotto l'effetto delle strutture economiche, poiché l'individuo viene ritagliato proprio sul modello del mercato, come un imprenditore della propria vita che deve ragionare in termini economicisti in ogni aspetto della sua esistenza. Si è tentato di immaginare una società libera dalle degenerazioni del capitalismo ottocentesco e fordista, proponendo un modello in cui però ogni aspetto dell'esistenza si misura secondo criteri economici e che assomiglia molto più a un insieme atomistico composto da una molteplicità di individui in lotta fra di loro che al regno della libertà. Ciò che dovrebbe essere esterno al mercato, è in realtà proprio fatto su misura delle sue logiche. È ora più chiaro quello che vuole intendere Foucault: per cercare di sottrarre l'individuo alla mercificazione e alienazione, lo si è rinchiuso nella gabbia della logica concorrenziale e imprenditoriale.
Si forma così un nodo inestricabile laddove si vorrebbero mettere insieme due elementi inconciliabili, da una parte una società uniformata sul modello del mercato, dall'altra libera dai suoi effetti più negativi. Alla fine anche la variante sociologica di Röpke conduce verso una proposta in cui la società è del tutto in balia dei meccanismi economici. Non si sta parlando semplicemente di quella che Habermas denunciava come la colonizzazione dei mondi della vita da parte della razionalità strumentale e neppure tanto dei meccanismi che strutturano l'uomo a una dimensione di Marcuse: qua siamo in presenza di un progetto di trasformazione antropologica attivamente messo in pratica dalla fine degli anni settanta volto a realizzare un tutto concorrenziale in cui il criterio della competizione sia la logica di fondo non solo dell'economia ma anche della politica, della società, dell'esistenza dell'individuo a ogni livello e grado. L'obiettivo diventa il governo delle condotte individuali a partire dall'universalizzazione del modello dell'impresa. Non si tratta di un complotto, né di un piano pensato a tavolino e messo in atto da un gruppo di studiosi e politici. Si tratta di alcune concezioni che sono diventate dominanti e che hanno prodotto specifiche pratiche e atteggiamenti, che peraltro non hanno un carattere di sistematicità ma che a seconda del contesto possono subire rallentamenti, deviazioni, interruzioni. Ne è prova il fatto che non tutte le ricette ordoliberali siano state realizzate e non tutte abbiano funzionato. Non c'è un soggetto onnisciente che pianifica ogni politica neoliberista e che ha sotto controllo tutti i suoi effetti, ma c'è una classe dirigente globale coadiuvata da specifiche istituzioni e da specifici think tank, che muove una lotta di classe dall'alto avvalendosi di una serie di strategie e di tecniche di varia natura per mantenere la sua egemonia.
Sicuramente molti esponenti della Scuola di Friburgo non sarebbero contenti di vedere il tipo di realtà sociale che si è venuta formando a partire dagli anni ottanta. Non solo il sogno di una società come se la immaginava Röpke non si è mai potuto realizzare ma la governamentalità liberista non ha neppure messo un freno a quella mercificazione e omologazione consumistica che era il bersaglio della critica ordoliberale. Così, il mito della concorrenza generalizzata e totalizzante ha prodotto effetti ancora più profondi e radicali sull'essere umano di quanto gli stessi ordoliberali probabilmente si aspettassero. È sotto l'occhio di tutti come lo smantellamento del sistema previdenziale e la messa al bando delle politiche redistributive abbia creato un sistema in cui l'individuo è chiamato a un continuo calcolo individuale su tutto perché deve assumersi quei rischi che prima era lo Stato a prendersene carico. La privatizzazione del servizi e la commercializzazione virtualmente di ogni aspetto della realtà significa vedere la sanità e l'istruzione come un investimento che il singolo è chiamato a fare oppure no a seconda di un calcolo costi/benefici; allo stesso modo il nostro corpo, il nostro tempo, le nostre relazioni sociali e affettive devono essere massimizzate e ottimizzate secondo i medesimi criteri. Quella che apparentemente è una libera scelta è il frutto di un sistema concorrenziale generalizzato al quale non ci si può sottrarre se si vuole vincere la "partita" nella giunga neoliberista. Un mondo in cui se non sei continuamente attivo e intraprendente vieni declassato e sorpassato, obbliga a dover scegliere, a dover continuamente ricorrere a calcoli utilitaristici in ogni ambito. Un soggetto che non sia continuamente attivo e pronto a cogliere le migliori opportunità sembra inconcepibile. È la logica della micro-impresa individuale in un ordine di concorrenza perfetta che arriva a interessare finanche gli aspetti psicologici più profondi. L'interiorizzazione di questi meccanismi concorrenziali e imprenditoriali che vengono continuamente riattivati dalle narrazioni del Nuovo Management o dai guru della Silicon Valley, producono nuove forme di soggettività docili e disciplinate sia nel tempo libero, dove le energie sono rivolte alla scelta dei prodotti commerciali o affettivi migliori, che nel lavoro dove per il singolo lavoratore l'obiettivo è quello di raggiungere standard qualitativi sempre più alti, migliorare la propria "impiegabilità", essere più produttivi degli altri in un sistema in cui i nuovi strumenti di valutazione sono sempre più capillari, specifici e individualizzati. Sotto il paraocchi ideologico della responsabilizzazione, dell'autonomia e della realizzazione di sé, si crea un meccanismo competitivo che comporta una corsa affannosa a raggiungere il massimo dell'efficienza produttiva infliggendo dei costi psicologici enormi in termini di ansia, stress e autostima, che vengono poi arginati il più possibile dai nuovi prodotti del benessere (palestra e attività fisica, corsi di meditazione, regimi dietetici, tecnologie di "quantified self") che quella che il sociologo ed economista William Davies chiama molto puntualmente "l'industria delle felicità" è ben lieta di venderci.
Come affermano brillantemente Dardot e Laval, il neoliberismo non è un ritorno a un capitalismo senza regole, non è semplicemente distruzione regolativa, istituzionale e giuridica, è almeno altrettanto produzione di relazioni sociali, di forme di vita e di soggettività. Il neoliberismo punta a totalizzare, a fare mondo, tutte le dimensioni dell'esistenza umana. Non è semplicemente una modalità di organizzazione economica ma anche una forma di governo dello stato, della società, delle condotte individuali. Per questo l'obiettivo finale del neoliberismo, così come concepito dagli ordoliberali ma anche dai teorici della scuola austriaca, è quello di configurarsi come unica razionalità governamentale possibile, negando ogni possibile esternalità critica, ritenuta inammissibile. Il disegno egemonico avrà trionfato quando il neoliberismo si sarà imposto come una seconda natura, una normalità interiorizzata che impedisce anche solo di ipotizzare un'alternativa.
Di tempo e potere, una conversazione con Valerio Evangelisti
L'autore dell'intervista si assume la responsabilità per eventuali errori od imprecisioni nella trascrizione della conversazione.
(DP) Il ritorno al ciclo di Eymerich, dalla trilogia del Sole dell’Avvenire, ha un valore molto particolare per chi ti segue, ma offre l’occasione per tornare a chiederti del tuo rapporto con la storia. Lasciato alle spalle il Novecento hai riabbracciato il Medioevo e la dimensione distopica, scegliendo di andare molto in avanti con la dimensione del futuro, ma sempre rifiutando il fantasy. Grande attenzione per la ricostruzione del passato ed elementi fantascientifici ritornano insieme all’inquisitore...
(VE) Per quanto riguarda il perchè ho ripreso il personaggio di Eymerich posso dire che ero arrivato ad una specie di punto morto. Non sapevo come andare oltre il Sole dell’Avvenire, in qualche modo. Poi c’è da dire che la nuova formazione del mio editore, che ha cambiato personale e quadri molte volte, non aveva amato affatto il Sole dell’Avvenire, non lo aveva promosso, sembrava un peso morto.
(DP) Comunque è andato bene!
(VE) Sì, sì, anche se si può notare il fatto che stanno ritardando la pubblicazione degli Oscar del terzo volume, che invece è richiestissimo, soprattutto nelle regioni di cui tratta il libro...
Quindi c’era questa svogliatezza da parte dell’editore e, da un’altra parte, c’era il mio desiderio di recuperare una parte del pubblico precedente che era rimasto perplesso rispetto all’operazione del Sole dell’Avvenire. Sentivo, al di là delle pressioni che ricevevo, l’impulso a tornare al mio personaggio più tradizionale, quasi come un ricominciare da capo. Ci sono stati poi altri motivi secondari, oltre a quelli monetari (ero sicuro che Eymerich avrebbe venduto più di ogni altra cosa).
Per quanto riguarda la concezione del tempo ed i vari piani che si intrecciano: è la continuazione di un discorso già avviato con i precedenti romanzi, che potrebbe riassumersi nel tema che tutto si tiene, tradotto dal francese tout se tient. Ogni cosa ha un precedente e delle conseguenze. A volte c’è come un girare su se stesso del tempo, per cui i riflessi di cose che sono state, o che verranno, li possiamo constatare nella nostra quotidianità.
La concezione della storia che metto in scena, malgrado questa circolarità, quasi mistica, in realtà è abbastanza strettamente materialistica. Nulla di quanto avviene è dovuto a circostanze esterne, ad un intervento divino od altre cose di questo tipo, bensì è frutto di rapporti materiali nelle diverse società. Io resto legatissimo al marxismo come concezione di interpretazione della storia e se uno legge bene si accorgerà che anche nei momenti più legati al passato c’è sempre un discorso di analisi delle classi, in qualche misura. Nell’ultimo romanzo c’è una classe di emarginati totali, ci sono lotte tra feudatari, la Chiesa e così via.
Dunque credo di essere rimasto coerente a quello che era il progetto originale. Adesso vedremo gli sviluppi, perchè poi io non li conosco. Li costruisco di volta in volta, ma a partire sempre da come vedo la storia e le cose.
(DP) Non so se sei d’accordo, ma mentre rispondevi mi veniva in mente come con il cristianesimo si superi in qualche modo l’idea di circolarità del tempo, mentre tu scegli di recuperarla senza il suo elemento mitologico del mondo antico. Mi verrebbe da dire che la tua visione del tempo recupera dal cristianesimo il portare la storia nel mondo terreno, mentre lo emancipa dalla religione attraverso il tutto si tiene, senza un Dio sovrastante, con noi come unici protagonisti.
(VE) Sì, va detto che la concezione del tempo, propria della Chiesa, era di derivazione aristotelica, sostanzialmente. Il pensiero aristotelico ha immobilizzato praticamente il pensiero ecclesiastico per tantissimo tempo, con qualche eccezione. Ad esempio io cito spesso Origene, che era un pensatore piuttosto anomalo fra i padri della Chiesa.
In ogni caso non è che io creda in una circolarità del tempo. Credo in una circolarità dei meccanismi di causa-effetto. Andrebbe visto non come un cerchio ma come una spirale, perché ogni volta si spinge un po più in là. Un fattore che in fisica è detto tau. Questo è molto importante per capire sia il libro che ho appena scritto, sia quello che scriverò.
Non è tutto così calcolato. Volendo evitare il genere fantasy e volendo invece rimanere ancorato alla fantascienza, pur mettendoci dentro tantissime cose, era inevitabile che mi interessassi alle evoluzioni del pensiero scientifico, anche se ritengo che siano tutte, per ora, approssimative e prive di prove sperimentali. La concezione del tempo nella scienza è cambiata molto più in fretta di quanto non sia cambiata nella Chiesa: il tempo diventa una dimensione, non è più esattamente lineare, sono teoricamente possibili anche balzi all’indietro, … Ma soprattutto è la questione causa-effetto, che diventa nel mio caso poco aristotelica.
(DP) Non hai mai la tentazione di proporre richiami più espliciti e strumentali nei tuoi romanzi rispetto a situazioni contemporanee, a costo di ignorare l’effettivo svolgersi della storia? In Eymerich risorge il riferimento al Movimento No Tav è evidente, ma dopo il Sole dell’Avvenire avresti potuto volere un richiamo più macroscopico.
(VE) Non potevo farlo più esplicito, a meno di non falsare il corso degli eventi. In generale poi dirò una cosa: c’è una grande esaltazione da parte di alcuni di queste forme di eresia. La realtà è che l’eresia non avrebbe costruito praticamente nulla. Se fossero stati i valdesi a governare il cristianesimo, il tentativo di ricostituire l’impero romano in altre forme non sarebbe mai passato.
Alcuni teorici, piccoli teorici, della Val di Susa, vanno a recuperare queste esperienze antiche, pensando che siano i prodromi di quello che fanno loro. Il problema attuale, legato molto all’evoluzione tecnologica, non deve essere affrontato con lo spirito di ritorno a mitiche origini, che non ci sono mai state, ma con tutt’altro spirito. Io perchè ho inserito la Val di Susa? Per dimostrare in qualche modo simpatia verso quello che fanno, ma non è che io aderisca a tutto quello che ci costruiscono attorno. Soprattutto io sono lontano da forme di anarchismo, con tutta la simpatia possibile. Sono come le eresie, danno soddisfazione a chi le professa, ma della società non cambiano una virgola.
(DP) Fra Dolcino reso grande da Dario Fo...
(VE) Fra Dolcino è grande per come è morto, grazie ai suoi nemici. I nemici erano senz’altro peggio di lui, però che proponesse di qualcosa di fattibile… Anche DeriveApprodi mise fuori una rivista dolciniana, che era simpatica, ma non se ne traeva molto di particolarmente significativo.
(DP) Rispetto alla categoria del potere ti faccio l’ultima domanda. Nel Medioevo la sua rappresentazione era più evidente, mentre oggi si è fatto tutto meno chiaro. Dopo i disastri del Novecento è passata l’idea, a sinistra, che sia bene rifiutare il potere, senza intenderlo come possibilità di incidere e mutare il presente. C’è una sorta di resa, per cui si contesta ma non si costruisce per timore di sporcarsi le mani?
(VE) In realtà ci si sporca le mani anche peggio. È un discorso complesso. Le forme di potere, oggi, non è che siano radicalmente difformi dal passato. Cambia l’assetto, perché il potere si distribuisce, diventa meno visibile e si sparge questa idea di democrazia, completamente diversa da quello che era il concetto originale di democrazia. Noi oggi vediamo quasi dappertutto delle oligarchie al potere. L’inganno pericoloso di questa cosa è che una parte del movimento antagonista ha assunto, senza accorgersene, degli aspetti di liberalismo, di pensiero liberale.
In realtà senza un discorso preciso politico, tutto finisce semplicemente in cambiamenti di costume, che sono importanti ma non automaticamente portano a cambiamenti politici (anche se magari ci riescono nel tempo). Secondo me, anche se ha tanti aspetti sgradevoli, la politica resta necessaria. Io posso rifiutare totalmente le istituzioni, mettermici contro, ma se faccio così cambierò magari me stesso, ma ben difficilmente cambierò il contesto sociale.
Non bisogna finire per accantonare il problema di chi comanda sul lavoro e chi invece deve lavorare, cioè il problema di classe, magari mettendo avanti istanze peraltro giustissime (il femminismo, la parità sessuale in tutte le sue forme od altri aspetti certamente fondamentali). Se non parti da un problema di classe non vai da nessuna parte o rischi addirittura di finire dall’altra parte. Ad esempio, i cosiddetti rossobruni sembrano dire cose simili alla sinistra, ma non citano mai l’elemento delle classi subalterne.
E nessuno mi venga a dire che tutto il lavoro è cognitivo, significa non vedere la realtà. Certe mansioni una volta tipiche dei ceti medi si sono proletarizzare, come gli stessi ceti medi. Ma questi non vuol dire che il meccanismo di fondo sia diverso da quello che il marxismo aveva identificato. Tu lo potrai raffinare il discorso marxista, adeguare, et cetera, ma non sostituirlo con una visione puramente liberale o libertaria.
(DP) Rispetto a quello che dicevi sulla politica e le istituzioni, mi viene in mente la scelta di Socrate, nel rifiutare di fuggire dalla città pur essendo condannato a morte. Rigettare il modo in cui è organizzata la società vuol dire mettersi fuori dalla città (intesa come comunità politica), mentre per cambiarla occorre agire al suo interno...
(VE) Concordo totalmente con Socrate, ma anche con il buon senso.
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La rivoluzione è finita, abbiamo vinto. Un testo necessario
La rivoluzione è finita, abbiamo vinto. Storia della rivista A/traverso di Luca Chiurchiù, per i tipi di Deriveapprodi, è per tanti versi un testo necessario. Necessario perché va a coprire una grossa lacuna nella pregevole opera di ricostruzione della storia delle riviste “di movimento” portata avanti da Deriveapprodi, ad esempio nell'ottimo Avete pagato caro, non avete pagato tutto. La rivista Rosso (1973-1979), ma necessario anche perché l'itinerario di A/traverso per tanti versi riassume in sé la parabola di un'intera generazione di lotte.
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