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Lunedì, 30 Ottobre 2017 00:00

Raccontami Cuba

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Nelle serate di domenica 15 ottobre e di domenica 22 ottobre si sono svolte al circolo Arci di Brusciana due iniziative che hanno avuto come protagonista Cuba: la prima a cura dell’associazione teatrale “Tra i Binari” che col progetto Raices Comunes ha presentato il documentario CuentameCuba come restituzione del viaggio intrapreso nell’isola caraibica dai membri della compagnia; la seconda ha visto gli interventi di alcuni attivisti dell’Associazione Italia Cuba che hanno condiviso con il pubblico le proprie esperienze professionali e personali vissute a Cuba.

La serata del 15 ottobre ha visto la compagnia teatrale “Teatro tra i binari” presentare il documentario CuentameCuba di Filippo Ficozzi (vedi qui). CuentameCuba si è soffermato soprattutto sull’aspetto culturale – e prettamente riguardante il teatro – di questa terra, questa realtà complessa e contraddittoria che ancora rimane mito agognato e al contempo utopistico di gran parte della sinistra comunista. Cuba è impossibile da raccontare esaustivamente. Questa è la premessa dei giovani ragazzi e ragazze che compongono la compagnia e che hanno dato vita al progetto, che ha visto, precedentemente, anche la realizzazione di due spettacoli teatrali. Il loro intento è quello di raccontare storie, storie comuni di gente comune, che hanno nel loro passato incisa la rivoluzione e che ancora credono che la lucha, ovvero la lotta, non si debba fermare, anche quando le condizioni economiche e le difficoltà derivanti dall’embargo, che continua a strangolare Cuna dal 1961, sono dure e difficili. Ma sono anche le storie di quelle generazioni che, invece, hanno assaggiato “il mito” dell’occidente e che, idealizzandone alcuni aspetti o vagheggiando una sorta di “sogno americano”, desidererebbero “fuggire” dall’isola e cercare il proprio futuro altrove, soprattutto negli Stati Uniti o in Europa. Non c’è giudizio morale nelle storie raccontate e in parte ascoltate e vissute dagli attori e registi del “Teatro tra i binari”, il cui desiderio è provare a far assaggiare a chi assiste ai loro lavori, un frammento che loro stessi hanno conosciuto e assaporato.

“Cuba è un’altra storia”, ribadisce più volte Francesco Mugnari, direttore artistico della compagnia, “e non la si può leggere né tantomeno rappresentare attraverso il filtro dei nostri valori occidentali e neoliberisti, perché là vi è un senso di dignità e soprattutto di solidarietà verso il prossimo, anche quando si è i primi a non possedere niente, che qui raramente si riscontra”. Compartir è il termine chiave che caratterizza lo spirito di quest’isola che ha alle spalle una storia rivoluzionaria, che, nel bene e nel male, ha fatto di Cuba un modello unico di socialismo reale, con il suo primato nei servizi pubblici, quali la sanità e l’istruzione che toccano livelli di eccellenza invidiabili in tutto il pianeta. Ciò che in particolare emerge dal documentario è “la vibrante produzione culturale del paese e il rigore con cui registi, drammaturghi e attori si impegnano quotidianamente in una battaglia contro la scarsità dei mezzi per portare in scena le loro opere. A Cuba l’accesso alla cultura viene considerato un bene pubblico alla pari di educazione e sanità, fare teatro viene visto come una missione in nome dello sviluppo culturale del paese” . Francesco per sottolineare il ruolo e l’importanza del teatro e di chi vi fa parte nel paese caraibico porta come esempio la sua condizione, quella di un attore qualificato che non vede uno sbocco professionale riconosciuto e retribuito nel mondo dello spettacolo. Mentre a Cuba gli attori teatrali hanno uno stipendio pubblico al pari di medici e insegnanti, qui in Italia lo puoi fare solo se hai una forte passione e un reddito alternativo che ti permetta di portare avanti l’attività teatrale. Altro aspetto che viene fuori dal documentario, grazie alle testimonianze dirette di attori, drammaturgi e registi, è la fierezza del popolo cubano che tra incertezze e difficoltà non ha mai smesso di lottare né abbassa mai la testa. Molti cubani che ricoprono ruoli qualificati come medici o ingegneri, sono costretti a svolgere altri lavori meno qualificati -cosa che per noi sembrerebbe inconcepibile per quanto riguarda certe categorie-, ma, appunto, Cuba è un’altra storia e non va interpretata attraverso il riflesso dei nostri schemi ideologici. Il documentario, oltre alla bellezza estetica delle immagini, alla intensa emotività che suscita grazie alle accurate riprese in bianco e nero dei teatri cubani e alla profondità di alcune testimonianze raccolte, pone anche degli spunti di riflessione, in particolare rispetto alla cultura in riferimento ai cambiamenti sociali che attraversano questa terra. Si tratta di una battaglia continua per affermare la propria identità e la propria capacità di esprimersi attraverso nuove forme mantenendo un legame viscerale con il proprio passato e la propria storia, contro “una visione denigratoria dell’isola che non ne riconosce il valore culturale ma la relega a esotica meta turistica” . Una leggenda del popolo “Mapuche”, come viene mostrato nel documentario, dice che “l’uomo cammina all’indietro, il futuro è ignoto dietro le sue spalle e il passato si trova davanti ai suoi occhi”. CuentameCuba ci lascia proprio con questa domanda: “cosa c’è davanti agli occhi di questo popolo?”

Durante la serata è stato anche possibile ammirare la mostra fotografica – già presente al Circolo da metà settembre – che riporta le immagini catturate da Simona Fossi, Simone De Fazio e Martin Hidalgo durante il loro viaggio in terra cubana, suddivise rispettivamente sotto i titoli di “Aguas”, “Entonces”, “Retratos”. Le immagini di vita, volti e sguardi ed elementi naturali dell’isola sono uno specchio poetico e vividamente potente che riescono a catturare lo spettatore con una forte intensità magnetica e per un attimo lo strappano dalla frenesia del suo vivere per rimanere sospeso in una dimensione quasi eterea, senza luogo e senza tempo.

Domenica 22 ottobre invece Cuba ci è stata raccontata dagli attivisti dell’Associazione Italia-Cuba. Umberta Torti, psicopedagogista, ha svolto la sua attività professionale dal 1994 al 1998 a Cuba presso l’Istituto Nazionale SIDA per l’informazione e la prevenzione sulle malattie sessualmente trasmissibili ed è stata al servizio di “Attenzione e Riabilitazione Comunitaria all’Alcolista (ARCA)” all’interno del Gruppo di Psichiatria Sociale presso l’ospedale “X De Octubre” dell’Havana. Insieme a lei sono intervenuti il Coordinatore regionale dell’Associazione, Roberto Nannetti e altri attivisti, tra cui il poeta Maurizio Rossi che ci ha regalato anche la lettura delle sue poesie ricche di solenne fierezza e vibrante pathos che fanno parte della raccolta “Una penisola senza memoria”.

In un periodo in cui, esordisce Umberta, citando Giulietto Chiesa, l’uomo è “formattato” perché l’immagine ha sostituito il discorso, il logos, il pensiero critico, anche Cuba viene vista o come un idolo da emulare da una certa parte della sinistra, in quanto unico modello di socialismo reale, o alla stregua di un paese del terzo mondo sotto una dittatura illiberale e repressiva. Entrambe queste classificazioni sono da considerarsi totalmente fuorvianti o distaccate dalla realtà se si vuol render conto della complessità e dell’unicità di questo paese e di questo popolo. Sicuramente Cuba rappresenta un unicum e un faro per i paesi latinoamericani e non solo, in particolare per quanto riguarda la storia della rivoluzione e l’inflessibile dignità di questo popolo, ma anche rispetto alle conquiste sociali raggiunte che fanno di Cuba un paese senza disuguaglianze, i cui servizi sociali – dall’istruzione alla sanità, dal diritto alla casa alla razione alimentare- sono accessibili a tutti, oltre a rappresentare delle vere e proprie eccellenze. Basti pensare a come il governo cubano abbia affrontato il problema dell’HIV: “già nell’86”, come ricorda Torti, “avvenivano le prime diagnosi sulla malattia e, mentre ancora in Occidente si riteneva che l’Aids fosse solo la malattia dei tossici e delle prostitute, e quindi si affrontava la questione marginalizzando queste categorie più fragili, a Cuba ci si approcciava alla patologia come un problema sociale e che riguardava tutta la collettività, che pertanto veniva adeguatamente sensibilizzata e informata usando i protocolli e le misure previsti per le malattie sessualmente trasmissibili”. In generale qualsiasi malattia o qualsiasi dipendenza – come l’alcolismo o l’uso di sostanze psicotrope e/o allucinogene – viene affrontato collettivamente e non come se fosse solo un problema del singolo, poiché qualsiasi disagio o difficoltà tocca tutta la comunità, il benessere e il malessere del singolo diventano anche il benessere o il malessere dei molti, proprio perché il soggetto non venga emarginato né escluso dal tessuto sociale, di cui rimane, in qualsiasi caso e indipendentemente da qualsiasi disagio, sua parte integrante. Bisogna considerare che nonostante le enormi difficoltà che affliggono quest’isola, dalle condizioni idro-geologiche al problema dell’embargo che costringe Cuba a commerciare a prezzi molto più alti con altri paesi – come ad esempio il Messico – il suo popolo è ed è sempre stato in prima linea per portare il suo aiuto con le sue competenze e le proprie risorse umane nei paesi che sono stati colpiti da catastrofi naturali, ultimo tra tutti il recente ciclone che si è abbattuto anche su Haiti. Benché l’uragano abbia attraversato anche Cuba, il suo governo oltre a intervenire sul proprio territorio ha prestato soccorso anche alla vicina isola caraibica. A questo proposito sono ben 150 le missioni umanitarie che porta avanti Cuba a livello internazionale impiegando 40.000 medici nel mondo.

Nannetti prendendo la parola dopo Umberta ribadisce che a Cuba si mira sempre all’unità, all’integrità del tessuto sociale e all’aggregazione e mai all’esclusione o al settarismo, alla divisione o alla competizione. Questo è stato e rimane uno dei capisaldi trasmessi dalla rivoluzione e un arretramento da questo punto di vista significherebbe un passo indietro per tutta la società. Per poter parlare di Cuba con onestà intellettuale bisogna mettere da parte i nostri parametri, che comunque ci hanno portato a situazioni sociali ed economiche drammatiche. Bisogna dismettere quella sorta di eurocentrismo con cui giudichiamo realtà e modelli sociali, economici, culturali e politici diversi dai nostri. Nannetti cita un esempio che rende un  po' conto delle differenze di approccio e di metodo che ci distinguono dall’isola caraibica: il coordinatore regionale di Italia Cuba ricorda infatti un recente fatto di cronaca avvenuto a Como in cui un signore con moglie e figli aveva visto perdere la sua residenza in seguito al mancato pagamento dell’affitto, trovandosi così a perdere anche la possibilità di poter pagare la mensa scolastica ai figli. La drammaticità della sua condizione lo ha portato a compiere il gesto estremo e terribile di dare fuoco a sé stesso insieme alla moglie e ai quattro figli. A Cuba è capitato il caso inverso: un proprietario di tre immobili che affittava due di questi senza pagare le tasse ha visto l’espropriazione degli immobili, ma siccome doveva mantenere moglie e figli, lo Stato ha fatto in modo di tutelare i componenti familiari più deboli dando loro una delle tre abitazioni espropriate al capofamiglia.

Un altro esempio virtuoso che Nannetti ricorda riguarda le modalità con cui il governo cubano ha affrontato il problema dell’invecchiamento della popolazione che negli ultimi vent’anni ha colpito Cuba come molti altri paesi in via di sviluppo. Per assistere gli anziani lo Stato ha messo a disposizione 250 scuole pubbliche dove cubane e cubani possono formarsi per le attività di cura e supporto agli anziani così da poter mantenere anche un contatto e una possibilità relazionale tra assistiti e assistenti senza delegare queste mansioni solo a una manodopera straniera e spesso sottopagata o a nero come accade spesso nei paesi europei.
Se davvero questo è il mondo delle immagini, potremmo dire che di Cuba ne esistono una, nessuna e centomila, a seconda di quello che ognuno di noi vi proietta sopra e vi vuole vedere secondo la propria prospettiva, ma sicuramente una cosa è certa e da tutti occorre che sia riconosciuta: la rivoluzione ha contribuito a scolpire e forgiare l’identità e la dignità di questo popolo, che, anche nelle sue criticità e nelle sue possibili contraddizioni è capace di incantare e di affascinare con quell’indomita fierezza e quell’orgoglio quasi spavaldo che forse nessun altro popolo è capace di eguagliare, né tantomeno di poter emulare.

Immagine da www.traibinari.org

Netta conferma dei liberal-democratici (33,28%, oltre 18.500.000 voti): è questo il dato che emerge cristallino dalle elezioni anticipate per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti convocate dal premier Abe proprio per ottenere una nuova legittimazione. Dei 465 seggi rinnovati - dieci in meno rispetto alla scorsa volta in virtù di una controversa riforma dei collegi elettorali - la coalizione PLD-Nuovo Komeito ne ha riottenuti 313 (ne aveva 318 nella Camera uscente) superando, sia pur di poco, la maggioranza dei due terzi necessaria in entrambe le Camere per poter iniziare un processo di revisione costituzionale i cui confini non sono però ancora chiari.
Ferma restando la volontà dei conservatori (del PLD molto più che del Nuovo Komeito) di intervenire sull'articolo 9 della Carta, quello che assicura il carattere pacifista del Sol Levante, commentando il risultato elettorale Abe è sembrato nuovamente titubante (oltre alla maggioranza qualificata occorre che la modifica costituzionale sia poi approvata con referendum popolare) ed ha rimarcato la necessità di coinvolgere parte dell'opposizione. “Anche se abbiamo ottenuto la maggioranza dei due terzi è necessario creare un consenso che vada oltre i partiti di governo” ha sostenuto il premier il giorno dopo il voto.

Mercoledì, 25 Ottobre 2017 00:00

Euclid Tsakalotos: crisi, Syriza e governo

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Euclid Tsakalotos: crisi, Syriza e governo

Euclid Tsakalotos ha scritto qualche anno fa un libro (Crucible of Resistance. Greece, the Eurozone and the World Economic Crisis, Pluto Press, con Christos Laskos), a metà fra il saggio di politica economica e la ricostruzione della storia politica greca recente) che troviamo molto utile per ragionare sulle difficoltà di una politica alternativa a quella della Trojka. Il libro precede la vittoria di Syriza del 2015, anche se quando è stato scritto già si poteva intravedere la sua prossima ascesa al governo, e quindi precede la nomina dello stesso Tsakalotos a Ministro dell’Economia, tuttora in carica, in successione di Varoufakis.

A casa loro: le tante realtà del continente africano

I recenti appuntamenti elettorali europei hanno visto come denominatore comune la retorica intorno all’immigrazione. Un fattore a vantaggio delle forze nazionaliste, che mobilitano la rabbia e il senso di impotenza dell’elettorato contro i numerosi rifugiati che arrivano ogni giorno nel continente. Le gravi conseguenze delle politiche neoliberiste di quest’ultimo decennio hanno concesso il campo a queste pericolose derive fasciste e nazionaliste, che hanno spostato pericolosamente a destra l’asse anche dei partiti del PPE.

Il Premio Nobel sudafricano Desmond Tutu, simbolo della lotta antiapartheid insieme a Mandela, lo scorso giugno in un momento di boom degli sbarchi, ha sollevato un interrogativo importante: "Per una volta, almeno per una volta mi auguro e prego perché i cittadini europei, e i loro governanti, non si chiedano dove vogliano andare gli esseri umani che bussano alle porte, troppo spesso sbarrate, dei ricchi Paesi occidentali. Io spero e prego che almeno una volta ci si chieda da cosa fuggono, e perché, e per responsabilità di chi, i loro Paesi si siano trasformati in un inferno in terra". In questo senso, è utile andare oltre alle degradanti discussioni dei talk show e alle imbarazzanti dichiarazioni dei nostri politicanti e, forse troppo brevemente, tentare di inquadrare la reale situazione di un continente immenso come quello africano. È utile ricordare a noi stessi, contrariamente a quanto riportato dai media, che solamente un terzo dell’immigrazione africana varca il Mediterraneo e i suoi confini continentali. Due terzi della totale immigrazione dell’Africa è interna, come si può vedere analizzando i dati della World Bank del 2016. Negli ultimi anni, si è anche registrato un alto numero di migranti che ritornano nei loro paesi origine, anche dai paesi ad alto reddito dell’area OCSE.

Oltre all’immigrazione, l’altra ottica dalla quale viene osservato il continente africano è quello del cosiddetto “afropessimismo”. Ovvero la costante e immediata associazione dell’Africa a tragedie come la fame, le carestie, le epidemie, le guerre ecc. Sicuramente sono alcuni dei problemi che ancora oggi frenano il grande continente, ma non possono essere i punti di partenza per una visione oggettiva della grande realtà africana. Dalla nascita degli stati nazionali africani, soprattutto nell’Africa subsahariana, la timida crescita economica del continente si è bruscamente frenata tra il 1970 e la fine degli anni Ottanta. Condizionata da una serie di fattori quali le forti oscillazioni del prezzo del petrolio, fattori economici riguardanti i tassi di interesse sui debiti pubblici, il forte protezionismo dei paesi dell’Africa settentrionale, mala gestione economica, fattori geopolitici che causano conflitti ecc. Vi è stata una ripresa economica generale del continente a partire dalla metà degli anni Novanta, ma che non è stata omogenea in tutte le regioni. Una crescita determinata da alcuni fattori: forte domanda internazionale di materie prime (petrolio, metalli, gas ecc), calo dell’inflazione, progressi democratici e politici, nuova classe dirigente, timida diffusione della tecnologia ecc. Il problema delle risorse è determinante per capire lo sviluppo del continente: paesi ricchi di risorse e materie prime non hanno avviato una crescita economica sostenibile e non hanno portato a una riduzione della povertà. Paesi come Angola, Camerun, Nigeria e Gabon sono al fanalino di coda del continente negli indicatori internazionali sulla povertà e sulle aspettative di vita, per differenti fattori, eppure sono i maggiori detentori delle risorse petrolifere del continente, i cui i governi nazionali ricevono ingenti guadagni dalla vendita di petrolio. Nonostante la democrazia, e questo è un dato positivo, stia diventando il sistema di governo di riferimento del continente africano (anche nell’Africa subsahariana) la corruzione è uno dei maggiori freni alle politiche di sviluppo.

È migliorato l’indicatore che rileva il grado di qualità della democrazia, essendo aumentati in molti paesi africani gli organi di controllo sulle operazioni di voto e l’accesso della popolazione ai mezzi di informazione. Generando anche un aumento delle proteste democratiche nel continente, come nelle ultime elezioni in Ghana. È anche interessante mettere in relazione lo sfruttamento delle risorse naturali con il fenomeno dell’urbanizzazione, in forte crescita da alcuni anni a questa parte. Normalmente segnale positivo di crescita economica e sociale nei paesi in via di sviluppo, in Africa molte città non sono il luogo dove si produce la ricchezza ma dove viene consumata. È una urbanizzazione completamente diversa ad esempio da quella asiatica, dove grazie ai servizi e alle attività produttive quali il settore manifatturiero sono un luogo dove la ricchezza viene prodotta. Oltretutto questa urbanizzazione in forte crescita non è accompagnata ovunque da politiche di sviluppo sostenibili nelle risorse vitali quale acqua e la terra coltivabile, priva di qualsiasi strategia di pianificazione.

Nonostante la possibilità di avere una popolazione giovane che può comunque beneficiare dei miglioramenti nelle condizioni di vita e dalla riduzione in molte aree del tasso di mortalità, una delle più grandi incertezze del continente è legata alla sua demografia. Meno del 20% delle donne africane hanno accesso a mezzi di contraccezione, il processo di riduzione della fertilità incontrollata è lento, manca una efficace educazione sessuale e nonostante l’aumento dell’età delle donne in cui generano figli il numero di nascite per famiglia rimane alto e stabile. L’Economist nel 2011 ha parlato di un possibile disastro maltusiano del continente africano. Gli ultimi dieci anni hanno inoltre evidenziato un aumento dei conflitti, sia statali che regionali, dopo una riduzione che aveva favorito elementi di crescita economica dalla fine degli anni Novanta. Esempio lampante di questo fattore sono il Mali e lo Zimbawe, considerati poco tempo fa due degli stati africani che avrebbero trainato la crescita del continente (con indicatori classici come il PIL elevati prima delle guerre che li stanno distruggendo).

Non ci sono però solamente questi elementi negativi, nonostante sia disomogenea però il continente, soprattutto i paesi subsahariani, sono andati incontro a uno sviluppo sociale e politico importante. Che hanno favorito in molti paesi la crescita di una classe media, con un ricambio generazionale anche alla guida di molti paesi, una crescita della consapevolezza politica e l’accesso al dibattito democratico. Elementi confermati dai maggiori investitori internazionali nel continente africano, quali Russia, Cina, Brasile e India. L’Italia è uno dei maggiori paesi europei che investe in Africa, soprattutto nelle materie prime.

Per superare la demagogia sull’immigrazione, è necessario partire da una profonda analisi dei fattori cambiamento e sviluppo nel continente africano e accompagnare gli investimenti e le opportunità economiche con una crescita sostenibile. L’Europa non può continuare a ignorare il dinamismo e le problematiche di un continente come l’Africa a cui è storicamente legata. È un elemento cruciale e fondamentale per risolvere la tragedia quotidiana dei morti nel Mediterraneo, la tratta degli scafisti e i tanti problemi legati al rapporto tra continente europeo e continente africano. La forte crescita economica che molti paesi africani stanno sperimentando, non accompagnata da una redistribuzione della ricchezza e da miglioramenti delle condizioni di vita, è un problema che può essere affrontato. In un momento storico in cui le economie avanzate sono in recessione o in stagnazione economica, l’Africa è la nuova frontiera degli investimenti e alcune economie hanno i tassi di crescita più elevati al mondo. È importante investire e lavorare in Africa per una crescita sostenibile, favorendo un aumento delle qualità delle politiche pubbliche dei governi accompagnato da una lotta alla corruzione. Per fare ciò è necessario uno scambio dinamico e forte tra i due continenti, che non si limita allo slogan “aiutiamoli a casa loro” ma un programma di aiuti internazionali e di scambi funzionale al progresso dei paesi africani e a una politica sostenibile di sfruttamento delle risorse e materie prime. Soprattutto favorendo la formazione di una nuova classe dirigente, in una popolazione molto giovane come quella del continente africano. La crescita e lo sviluppo del continente africano sono un’opportunità non solo europea, ma per il futuro globale. Ad oggi l’Europa, pur essendo uno dei più grandi donatori in termini di ONG e aiuti internazionali, insieme ad accordi economici con molti paesi africani, non sembra essere in grado di elaborare una politica capace di interpretarne ed aiutarne lo sviluppo. Generalizzando nella macchina di propaganda politica europea le complessità e le differenze di un enorme continente a cui siamo strettamente legati dalla storia, a cominciare da quella scia di sangue che si perde nelle acque del Mediterraneo.

Lunedì, 23 Ottobre 2017 00:00

Essere di sinistra in sicurezza

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Essere di sinistra in sicurezza

Ogni volta la stessa storia: appena nell'aria inizia a sentirsi odore di elezioni, i partiti di destra fanno a gara a chi la spara più grossa per garantire, almeno a parole, la sicurezza del cittadino. Sui giornali si susseguono fatti di cronaca che raccontano nefandezze di ogni tipo, spesso perpetrate dallo straniero ai danni del povero indifeso cittadino. La ricetta di salvezza? Presto detto: votare a destra!

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