Politica

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Immagine liberamente tratta da upload.wikimedia.org

Incontro, lo scorso 16 ottobre, tra parlamentari dell'opposizione e gruppi civici per discutere sulle strategie da intraprendere per cancellare la legislazione che consente l'impiego all'estero delle Forze di Autodifesa.
Hanno partecipato alla discussione rappresentanti comunisti, democratici, socialdemocratici, del Partito dell'Innovazione (alle prese con l'abbandono del leader Hashimoto, intenzionato a formare un partito locale basato sul proprio feudo elettorale di Osaka) e di quello della Vita del Popolo di Ichiro Ozawa oltre a diverse realtà civiche (l'Associazione degli Studiosi Contro le Leggi sulla Sicurezza, gli Studenti per un'Azione di Emergenza per la Democrazia Liberale e la Federazione delle Associazioni Forensi).

Verso l'era post Kirchner: la politica argentina alla vigilia delle elezioni generali

Chiunque vinca, la sinistra perderà. Sembra essere questa la triste prospettiva con cui si aprirà l'era post Kirchner dopo che le elezioni generali del 25 ottobre eleggeranno tanto il nuovo Presidente quanto il nuovo Parlamento argentino.

Sono molti, a ragione, a parlare di un cambiamento epocale, un cambiamento anticipato dalla sconfitta politica delle Kirchner che non ha trovato in Parlamento i numeri necessari per modificare la costituzione e poter così aspirare a candidarsi per la terza volta a Presidente della Repubblica Argentina.
Sullo sfondo il caos del Partito Giustizialista della Presidenta, la dura lotta per la successione, le diatribe interne. All'interno della coalizione Kirchneriana, a prevalere è infine l'eterodosso

Venerdì, 23 Ottobre 2015 00:00

Processi resistenti

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Processi resistenti

Quando i Pm Antonio Rinaudo e Andrea Padalino hanno concluso la seduta dell'aula torinese con la sentenza ben scandita (“il fatto non sussiste”) , un grande urlo di giubilo si è alzato dalle platee del tribunale piemontese, collegato idealmente con le reti mediatiche e con i luoghi di socialità. Tutti contenti, tutti convinti che quel processo sia stato nel complesso un'ingiustizia, una vergogna per uno stato che si definisce democratico. Pensare infatti che personaggi arcinoti come Silvio Berlusconi dicano esplicitamente in pubblico: “Se mi arrestano, spero che abbiate il coraggio di fare una rivoluzione”, mentre personaggi come lo scrittore napoletano rischino la galera per molto meno e per delle dichiarazioni quasi banali per chi ha fatto della lotta uno dei punti della propria vita, fa quantomeno sorridere e riflettere. Riflettere perchè oggettivamente siamo di fronte a un'ottima notizia dal punto di vista della libertà di espressione, in un momento difficile per la democrazia stessa costantemente in pericolo tra una riforma della costituzione e un parlamento sottomesso completamente al volere dell' ex sindaco di Firenze.

Lunedì, 19 Ottobre 2015 00:00

Dove sono i nostri?

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Dove sono i nostri?

Dove sono i nostri? Ci potremmo chiedere: i nostri chi? Quando si parla di sinistra italiana una domanda del genere sorge spontanea. Nell'epoca della feroce frammentazione sociale, della mobilità insensata, degli esodi tragici di gente espulsa da territori devastati dalla violenza e dalla guerra non possono che attecchire derive pratiche e teoriche, di ogni genere. Non è più chiaro cosa si intende quando si parla di “umanità”, umanità dell'”uomo”, non è più chiaro cosa per noi possa significare “restare umani”. Tuttavia molti sono gli slogan che rivendicano una tale necessità, rivelatori di un senso che permane, un senso ragionevole che ancora indica come dovrebbero stare le cose.

La guerra continua negli stadi: il ruolo del calcio nella violenza nazionalista nei paesi della ex Jugoslavia

Sfido chiunque appassionato di pallone a non aver mai provato questo gioco malinconico. Provate a inserire tutti i più forti calciatori dei paesi della ex Jugoslavia in un’unica squadra. Dzeko, Jovetić, Modrić, Ivanović, Handanović: solo per citare per ogni ruolo alcuni dei più forti giocatori a livello europeo e mondiale; vedrete che il risultato sarà un “dream team” tale da far impallidire la stessa Jugoslavia precedente alla guerra.

Quel conflitto sanguinario e drammatico, come solo possono esserlo le guerre civili, che ha portato alla disgregazione della federazione jugoslava e di conseguenza questi calciatori a giocare con casacche nazionali diverse. Le guerre balcaniche si sono concluse oramai da anni, ma l’odio che per quasi un decennio le ha alimentate continua a infiammarsi alla minima occasione. Che fosse probabile una protesta con tanto di lancio di oggetti nei confronti del premier serbo Alexsandr Vučić in occasione della cerimonia a Srebrenica per celebrare i vent’anni dalla strage era plausibile. Prevedibile che Kolinda Kitarović, nuovo presidente della Croazia, sottolineasse l’importanza dei voti croati in Erzegovina dopo la vittoria alle presidenziali, acclamata da molti reduci di guerra. Ma che un anno fa la partita valida per le qualificazioni al prossimo Europeo francese tra Serbia e Albania si trasformasse in una battaglia, con tanto di drone militare portante di una bandiera del Kosovo, non se lo aspettava nessuno.

Osservando lo stupore e l’indignazione della Uefa e la reazione della stampa europea sembra quasi che tutto ciò fosse totalmente inaspettato (solamente due anni prima, per le qualificazioni ai Mondiali in Brasile, la partita tra Serbia e Croazia si era conclusa con cinque espulsioni in campo e scontri fuori dallo stadio). Come gli intellettuali jugoslavi che, increduli, osservavano l’evolversi drammatico degli eventi di quella estate drammatica del 1991, mentre proprio dagli stadi si diffondeva l’incendio della guerra. Il calcio nella diffusione dei nazionalismi della penisola balcanica ha sempre avuto un ruolo fondamentale, ancor di più che nel resto d’Europa. Qui la violenza calcistica come risultato del rapporto tra condizioni economiche e sociali difficili e la strumentalizzazione politica ha portato a conseguenze disastrose. In Bosnia Erzegovina si ricordano di Vedran Puljić, tifoso del Sarajevo a cui spararono fuori dallo stadio di Široki Brijeg due anni fa.

Sempre in territorio bosniaco, il derby tra le due piccole squadre della tristemente famosa cittadina di Mostar è una delle partite più pericolose del campionato, in una nazione che in Europa è tra i primissimi posti come violenza negli stadi. La guerra sui campi di battaglia e la distruzione di intere città e paesi è stata rinchiusa negli stadi, in un clima generale di tensione e rigidi controlli dell’informazione, come accade in Serbia, dove sugli scontri tra tifoserie è stata imposta la censura. I conflitti nella penisola balcanica negli anni Novanta probabilmente sono iniziati negli stadi, in quella generazione cresciuta dopo la morte di Tito, figlia di uno stato oramai decadente vittima di anni di corruzione e grande povertà, causati da un sistema federale incapace di riformarsi pronto all’autodistruzione. Non è un caso se molti vedono nella partita tra Stella Rossa e Dinamo Zagabria del 13 maggio 1990 l’inizio della guerra. Quel match valido per le qualificazioni alla Coppa dei Campioni allo stadio Maksimir di Zagabria si trasformò in un mattatoio, dove la stessa polizia jugoslava che doveva garantire la sicurezza della partita iniziò a pestare i giocatori e tifosi croati. Famosa la foto dell’calciatore croato Zvonimir Boban che allontana a calci un poliziotto serbo che pestava un suo giovanissimo compagno di squadra. Želiko Raznatović, comunemente noto come “Arkan” la Tigre dei Balcani, arruolava i componenti del suo agguerrito branco di Tigri nella curva dello stadio Maracanà di Belgrado, tra i più coloriti e facinorosi tifosi dello Stella Rossa.

I meritevoli giovani disoccupati, magari figli come lo stesso comandante di militari serbi o burocrati, venivano invitati dopo la partita nella gelateria in Kneza Miloša, una delle vie principali di Belgrado, di proprietà di Arkan per discutere sul futuro della Serbia. In quel locale gremito di ragazzi frustrati dall’impossibilità di un futuro e ubriacati di dottrina nazionalista, gli ultras dello Stella Rossa diventavano così membri di uno dei gruppi paramilitari più famigerati attivi nelle guerre jugoslave. Inoltre il comandante serbo decise di ripulire una parte del bottino di guerra nel calcio a fine del conflitto in Bosnia Erzegovina, investendo proprio nel pallone. Il primo due di picche lo prese proprio dalla sempre amata Stella Rossa nel 1996, l'allora presidente del club più famoso di Belgrado rifiutò l'offerta di Arkan. La Tigre scelse allora di acquistare l'Obilic, l'altra squadra della capitale, e nel giro di un paio di anni non solo la portò nella massima serie ma gli fece conquistare il primo e unico titolo nazionale della sua storia. La scelta di puntare su un club originariamente così modesto era dettata da suggestioni al limite tra storia e leggenda nonchè megalomania. Obilic FK come Milos Obilic, uno dei sovrani serbi che combatté nella battaglia contro il Kosovo, nella quale il popolo serbo perse contro i turchi e restò senza patria per 500 anni. Arkan, tra l'altro, si sentiva il messia, il nuovo Obilic, capace di riscattare il popolo serbo e il conflitto appena terminato ne era la prova.

Proprio con questa immagine abilmente costruita, Arkan riportò le sue Tigri in Kosovo all’inizio dell’ultimo conflitto balcanico, trovando nuove reclute proprio nella tifoseria della sua nuova squadra. L’esaltazione nazionalistica serba è sopravvissuta alla guerra ed è ancora fortemente presente negli stadi. L’effige di Arkan è visibile sugli stendardi degli ultras della squadra belgradese, il cui negozio ufficiale è pieno di T-shirt con la scritta “Kosovo je Srbija”. “Snage Srbjia”, la sigla “1389” anno della leggendaria battaglia del Campo dei merli nella piana di Kosovo Polje tra l’esercito serbo e gli ottomani. Non solo in Serbia la cultura calcistica è pesantemente invasa da derive nazionalistiche. I tifosi dell’Hajduk Spalato, oltre a bandiere che riportano la tradizione degli aiducchi, i pirati che terrorizzavano l’Adriatico nell’età moderna, hanno coloratissime magliette con l’effige dell’ex presidente croato Tudjman e il simbolo del suo partito nazionalista. La tifoseria della Dinamo Zagabria, in particolare i famigerati Bad Blue Boys (BBB), possiedono un vasto repertorio di cori nazionalisti e colorate bandiere che inneggiano alla grandezza dello stato croato. Recentemente è nato un nuovo gruppo ultras appoggiato dal nuovo presidente Mapić, molto più incline a relegare da una parte il forte sentimento nazionalista croato della curva, che però è stato oggetto di agguati e numerosi scontri da parte del nucleo storico dei Blue Boys.

Come citato in precedenza, la divisione amministrativa della Bosnia in tre repubbliche autonome (Croata, Serba e Musulmana) si riflette anche nel calcio, aumentando nel paese gli scontri tra tifoserie di matrice nazionalista e religiosa. Un calcio bosniaco preda oltretutto di una federazione completamente in mano a un manipolo di corrotti, che si spartiscono tra di loro i ricavi delle amichevoli giocate dalla Nazionale bosniaca e i fondi della Uefa per lo sviluppo delle strutture calcistiche; una corruzione denunciata in piazza più volte dagli stessi tifosi in manifestazioni spesso represse dalle forze dell’ordine. Episodi di violenza che vengono sottovalutati pericolosamente dalla Uefa e dagli organi di vigilanza del calcio europeo e mondiale, inseriti in una escalation silenziosa che già una volta in passato ha prodotto danni enormi. Negli anni Settanta e Ottanta il fenomeno hooligans nel Regno Unito era nato in quelle cittadine e sobborghi della classe operaia e industriale, in cui stava covando un sentimento di rabbia pronto a esplodere per le difficili condizioni economiche del paese e per quella guerra condotta contro l’industria manifatturiera e mineraria a favore della nascente politica finanziaria mondiale.

Nei paesi balcanici questo sentimento di rabbia alimentato dalla retorica nazionalista ha prodotto una guerra e ancora oggi il focolaio del nazionalismo aggressivo non si è spento. In quella pace traballante che regna sui paesi della ex Jugoslavia, la guerra è stata rinchiusa e relegata negli stadi, tenuta nascosta agli occhi del continente e riemerge in occasione delle celebrazioni della memoria bellica. Le tifoserie di questi paesi ovunque vanno ostentano con manifestazioni violente e disordini questi sentimenti di odio, tramite gruppi minoritari di facinorosi che macchiano intere nazioni. Gli incidenti dei tifosi serbi a Genova in occasione della partita con l’Italia lo scorso anno e i disordini all’estero dei tifosi croati di quest’ultimo periodo ne sono una testimonianza. Elementi nazionalistici che sono presenti in altri sport: basti guardare le esultanze di Novak Djoković ad ogni vittoria e trofeo, il tuffo in piscina della nazionale di pallanuoto serba facendo con tre dita della mano il simbolo della trinità serba agli ultimi europei ecc.

Per combattere questa violenza nata da sentimenti che con il calcio e con lo sport non hanno niente a che fare, sarebbe necessaria una più severa vigilanza da parte degli organi competenti per bastonare tramite dure sanzioni (come la minaccia del taglio ai fondi di finanziamento alle federazioni, l’esclusione dalle competizioni internazionali sia di club che delle Nazionali, penalizzazioni nel ranking ecc) le federazioni calcistiche per costringerle a promuovere presso i propri governi delle legislazioni severe sulla violenza negli stadi. Nella sua immobilità causata da una mancata unione d’intenti e nella sua vocazione economica, l’Europa del calcio osserva indifferente l’esplodere momentaneo di questi casi di violenza, ignorando una situazione che in questi paesi è diventata la normalità. Una delle missioni principali dello sport e del calcio dovrebbe essere quella di trasmettere sentimenti di unione e amicizia, cercando di far dimenticare davanti a un pallone anni di guerre e di odio, non contribuire a soffiare sulle ceneri ancora ardenti di un conflitto dimenticato. Che ancora rumoreggia negli stadi, aspettando il momento in cui il pallone volerà fuori dagli spalti riversandosi in strada.

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