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Di Chiara Del Corona e Daniele Sterrantino
“(…) Questo è un nuovo inizio, non una fine. E’ l’inizio di una nuova lotta in favore delle minoranze etniche. Abbiamo tutti delle grandi responsabilità verso la democratizzazione di tutte le popolazioni e culture in queste terre. Invito tutte le altre popolazioni in questo territorio a condurre un’esistenza basata sulla libertà e l’uguaglianza”
Abdullah Öcalan
Un’iniziativa davvero interessante e importante quella organizzata il 13 marzo dal Circolo Due Strade Tripetetolo di Lastra a Signa e che ci ha portato un po’ di più dentro il complesso mondo del Kurdistan il quale per troppo tempo è stato messo in secondo piano da stampa e media. Soltanto negli ultimi mesi, grazie alla resistenza dei curdi contro l’esercito dell’Isis si sono accesi i riflettori – ma per poi spengersi repentinamente e riaffondare nel buio – su questo “stato”che non è mai stato riconosciuto a livello internazionale e giuridico. A condurci attraverso la storia, le dinamiche, gli eventi attuali che si snodano attorno al popolo curdo e alla sua resistenza in difesa della libertà e contro la minaccia dello Stato islamico, sono stati Giulia Chiarini, attivista fiorentina che più volte è stata in Kurdistan ed Erdal Karabey, presidente dell’associazione culturale Kurdistan. I due relatori ci hanno raccontato fatti ed esperienze, stimolati dalle domande mirate e dalla competente coordinazione di Daniele Sterrantino, uno dei maggiori promotori e ideatori dell’iniziativa.
Ogni tanto la patina di silenzio dei media è costretta a lasciare emergere qualche spiraglio di luce dalle condizioni reali di chi, lottando disperatamente, cerca di rivendicare condizioni di vita e di lavoro più degne e più umane. Così, capita che persino il Wall Street Journal (il primo quotidiano americano online che si occupa principalmente di finanza, fino al 2007 di proprietà della Dow Jones & Company e poi rilevato da Rupert Murdoch) arrivi a interessarsi delle condizioni degli operai edili migranti del Dubai (leggi qui). E così emergono per un istante queste rivolte dei neo-schiavi sconosciute ai più, su cui prontamente il vortice massmediatico riesce a chiudere ogni approfondimento delle condizioni reali di lavoro di questi per poi ritornare subito a fagocitare gli animi verso i nuovi orizzonti di sviluppismo più sfrenato.
Il Grande Fratello vince su Spartaco, puntualmente. Anche la notizia più tragica diventa una merce che nel mondo delle big corporation dell'informazione si deteriora rapidamente una volta venduta. Ebbene, le rivolte degli operai nel Golfo non sono certo una notizia su cui si può sorvolare facilmente, tanto più che avvengono ormai da nove anni a questa parte (il primo grande sciopero risale al 2006) e in nazioni in cui i diritti politici e civili semplicemente non esistono, ma con le quali l'Occidente continua a intrattenere rapporti economici e politici senza che nessuno si scandalizzi più di tanto. Se non fosse stato per il solenne rifiuto della first lady Michelle di indossare il velo alla cerimonia funebre del re saudita Abdullah nessuno saprebbe delle tragiche condizioni dei sudditi sauditi, però il petrolio serve e d'altra parte non è un segreto che il prezzo del petrolio sia finito al centro dell'attuale scontro economico e geopolitico mondiale, quindi i peroratori del diritto umanitario dovranno accontentarsi del coraggio di Michelle. Ad esempio la legge negli Stati retti dagli emiri vieta espressamente gli scioperi, ma questi avvengono ugualmente grazie ai veri atti di coraggio di lavoratori che, seppur puntualmente repressi con la deportazione, decidono di lottare pagandone tutte le tragiche conseguenze sulla propria pelle, come è accaduto ai capi della rivolta sindacale dell’Arabtec colosso delle costruzioni che ha realizzato, tra l’altro, il Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo (830 metri) che ospita l’Hotel Armani con camere da 700 euro a notte.
Ancora, in Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar è in vigore il sistema di reclutamento della manodopera detto della Kafala (garanzia) che lega indissolubilmente il lavoratore al proprio datore di lavoro, un sistema di reclutamento tanto libero e foriero di garanzie che assomiglia pericolosamente all'acquisizione di uno schiavo: un ufficio di collocamento nel paese d'origine trova un datore di lavoro disposto a sponsorizzare il lavoratore immigrato, che da quel momento non può cambiare posto di lavoro per tutta la durata del contratto. Chi si sottrae al sistema può essere incarcerato o, di fatto, sequestrato. Chi scappa è colpito da huroob, una denuncia che trasforma il lavoratore in una sorta di schiavo fuggitivo. La gravità del fenomeno è data proprio da ciò, dalla messa a sistema e dalle conseguenti dimensioni di massa del fenomeno che investe milioni di lavoratori e lavoratrici con svariate categorie che vanno dagli operai edili, agli addetti dei mega store, alle collaboratrici domestiche. I numeri sono veramente impressionanti e riportano tassi di suicidi e di morti sul lavoro crescenti. Per rendere l'idea dei diritti lavorativi si può descrivere il caso che nel maggio del 2011 fece scalpore innescando poi la rivolta all'Arabtec: Athiraman Kannan, operaio indiano di 38 anni che percepiva 150 euro al mese per 12 ore di lavoro su sei giorni settimanali, si lanciò dal 147˚ piano del grattacielo che stava costruendo dopo che il suo superiore gli rifiutò un permesso per tornare in India in seguito alla morte del fratello.
Dal 1998 ad oggi, cioè da quando si ha notizia delle condizioni di sfruttamento di queste masse di migranti in arrivo dalle zone povere dell'Asia (India, Nepal, Sri Lanka, Bangladesh, Indonesia e Filippine) e del Corno d'Africa (Somalia, Eritrea e soprattutto dall'Etiopia) i “migrant workers” hanno dovuto lottare praticamente per ogni cosa della loro vita quotidiana. Tuttavia, ogni minima conquista viene pagata dai lavoratori a carissimo prezzo se si pensa che nel solo 2013 sono stati espulsi per ritorsione centomila lavoratori dal solo territorio saudita.
È però opportuno ricordare che a beneficiare dei vari strumenti di irrigidimentazione della manodopera che noi consideriamo "immorali", dalla kafala all'huroob, sono spesso virtuose, evolute e idolatrate imprese occidentali che praticano l'unica legge conosciuta nel sistema capitalista: il profitto senza limiti. Per poter fare ciò simili oasi di schiavitù sono benedette come manna dal cielo anche dalle nostrane Alitalia, Piaggio, Eni, Eataly e Finmeccanica. I rapporti tra la nostra economia ancora troppo statalizzata secondo l'ideologia dominante e gli emiri che stanno facendo shopping in occidente non sono mai stati così intensi. Infatti, se l'episodio di Michelle Obama risale al 28 gennaio, l'ultima visita del nostro Presidente del Consiglio è di poco precedente e risale all' 8 gennaio. L'Expo, mastodontica operazione di greenwashing, non poteva che mirare a portare i fondi sovrani degli emiri a investire in Italia, rivelando quanto siano intersecate le questioni dello sviluppismo e dei nuovi settori tecnologici spacciati come ecofriendly. Il primo maggio (data simbolica) nei padiglioni dei paesi del Golfo saranno presentate soluzioni altamente tecnologiche per le energie rinnovabili e lo sviluppo sostenibile, evidentemente centrali proprio nel settore dell'edilizia, in cui il basso impatto ambientale delle costruzioni avveniristiche dettate dal sopracitato sviluppismo viene venduto con il paradossale slogan per una petrolmonarchia "l'acqua è più importante del petrolio". In realtà, come visto sopra, le connessioni tra l'economia italiana e quella degli emirati sono molto più estese e vanno dal settore della Difesa a quello della metallurgia fino a quello energetico, dei trasporti e ora pure del cibo Made in Italy di Farinetti. È chiaro che in materia commerciale i diritti umanitari non valgono, come non valgono i diritti civili e politici: tutto è valido purché segua le solenni leggi del profitto e giacché il profitto non è mai anomico, ma risponde alle leggi del Capitale, perché non chiedere agli emiri anche una mano per risolvere la questione libica? E infatti nell'ultimo incontro dell'8 gennaio si discusse anche di questo, cioè di come ingabbiare la manodopera che pretende di essere libera prendendo in parola coloro che vanno cianciando da un trentennio ormai di libertà dei mercati. Tuttavia, le varie monarchie ancora non si sono accordate per spartirsi le risorse petrolifere della zona, per cui è probabile che la guerra tra bande continuerà e che gli odiati "clandestini" continueranno ad "assediare" un'Europa che risponde divenendo sempre più fortezza.
Ecco che mentre l'assedio degli straccioni e dei poveracci impensierisce i leghisti, viceversa, lo shopping degli emiri è il benvenuto, e lo è a tal punto che un fondo qatariota lo scorso 27 febbraio ha acquistato una partecipazione pari al 100% del progetto Porta Nuova di Milano (380 unità abitative e 22 edifici, e non è che il caso più celebre) senza che i difensori supremi della "nostra" identità avessero nulla da eccepire.
Insomma, a proposito di argomenti totalmente insabbiati dai media, si potrebbe concludere dicendo che Mafia Capitale (vero specchio del nostro sistema politico-economico) ha dimostrato che il vero affare per l'una e l'altro è l'immigrato, il quale è importante risorsa politica ed economica proprio per coloro che vorrebbero chiudere le frontiere agli esseri umani ma non disdegnano invece l'apertura delle frontiere ai capitali cumulati con la sopraffazione più feroce.
Bene la FIOM e la “coalizione sociale”, bene, parallelamente, la ricomposizione da accelerare della sinistra politica non settaria
La “coalizione sociale” ideata dalla FIOM è stata ufficialmente attivata il 14 marzo. Come già era da qualche tempo noto, le caratteristiche che i promotori (accanto alla FIOM, Libera, Emergency, ARCI, Libertà e Giustizia e altri ancora) hanno voluto dare alla “coalizione sociale” consentono l’appartenenza a essa solo di organismi non politico-partitici, comunque si definiscano. Le intenzioni primarie sono tuttavia, dichiaratamente, del tutto politiche: si tratta di creare nella società una capacità di resistenza davvero efficace alle politiche brutalmente antisociali e pericolosamente lesive della democrazia già operate dai governi di questi anni od oggi in cantiere da parte del governo Renzi, e si tratta di costruire una relazione tra le diverse figure lavorative sfruttate, oggi scomposte in una miriade di forme di lavoro e di rapporti contrattuali dove è dominante la precarietà, in una situazione in cui una sinistra politica di massa non esiste più da un pezzo e la sinistra politica di minoranza è stata ridotta all’impotenza e a un largo discredito sociale da una storia di ripiegamenti su se stessa, scissioni, eterne lotte di frazione, derive estremizzanti e settarie, illusioni sul ritorno a sinistra del PD. Educatamente la critica alla sinistra politica di minoranza non viene più dichiarata dai promotori della “coalizione sociale”, ma alcune sue figure rilevanti l’hanno messa qualche tempo fa per iscritto. Forse potevano evitarlo, poiché qualcosa sul terreno della ricomposizione della sinistra politica aveva cominciato a muoversi, per esempio con la costituzione sotto elezioni europee della Lista Tsipras. Non è che tutti quanti i promotori della “coalizione sociale”, poi, possano dichiararsi freschi politici totalmente estranei al disastro della sinistra italiana. Ma al tempo stesso la loro critica, implicita o esplicita che sia, è meritata. È ovvio, inoltre, che la costituzione della “coalizione sociale” sia anche una critica mossa alle sinistre PD, sostanzialmente inutili, talora più che ambigue.
Respingere odio per fomentare solidarietà
È prassi annuale, come un rito iniziatico, come un gesto naturale, quando le idee quelle idee naturali non sono. È una moda, ogni anno gruppi di sedicenti fascisti (del nuovo millennio come amano definirsi) giocano a fare la “marcetta” nella città della torre. La popolazione pisana animata fin dagli anni più remoti da forte spirito antifascista respinge ogni qual volta questa minaccia lugubre prova ad avvicinarsi alla città.
Le elezioni, inesorabili, si avvicinano ma sulla rive gauche (non della Senna ma del Bisagno) si continua a litigare. Se nello schieramento a sostegno della candidata del PD Raffaella Paita l'assessore regionale Vesco (ex PdCI) si dichiara indisponibile a condividere la lista con gl'ex forzisti Vinai e Schneck, a sinistra dei dem il clima è ancora peggiore.
Sulla candidatura dello spezzino Pagano - da parte di don Farinella, di quanti conservano il marchio de “L'Altra Liguria” e del PRC - alla iniziale freddezza dei civatiani è subentrata – anche pubblicamente – un'aperta ostilità.
Il dibattito che abbiamo intrapreso a proposito del nuovo storytelling sulla sharing economy o, detto con una formula che non ricordi troppo Renzi, il modo in cui, da anni a questa parte, concetti come quelli di condivisione e cooperazione, storicamente cari alla sinistra, siano stati violentati dall’inserimento in un contesto neo capitalistico che ne stravolge il significato, ha suscitato molto interesse e continua, in primis tra di noi, a stimolare commenti e riflessioni.
Consapevole di non avere gli strumenti teorici per equivalere a chi ha scritto dell’argomento prima di me, prova a mettere nero su bianco quello che mi è passato per il cervello via via che leggevo gli articoli degli altri beccai e altri ragionamenti sul tema.
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