Relazioni internazionali, notizie da altri paesi, ingiustizie sparse per il globo.
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Capire la Russia è un obiettivo ambizioso. Paolo Borgognone si presenta dinanzi alla sfida con una pubblicazione che si avvicina alle 700 pagine, a testimoniare una consapevolezza della complessità del tema.
Nuova, pressante richiesta del governatore di Okinawa Takeshi Onaga affinché si interrompano i lavori di costruzione della nuova base militare statunitense di Henoko. Lo scorso 23 marzo il già sindaco di Naha ha chiesto al locale ufficio del Ministero della Difesa che non si prosegua nei lavori di posa dei blocchi di cemento in mare (posizionati oltre l'area strettamente connessa alla base), operazione che danneggia la barriera corallina.
“Il primo ministro dovrebbe sollecitare Washington a far spostare la base dei marine di Futenma da Okinawa senza alcuna altra precondizione, e non ricollocarla ad Henoko” ha dichiarato, lo stesso giorno, il Capo della Segreteria comunista Yamashita.
Senza padroni
È di pochi giorni fa la notizia, arrivata dalla Grecia, dell’altissimo rischio di sgombero dell’esperienza della fabbrica occupata VI.OME di Salonicco. Un colpo al cuore per chi, come chi scrive, ha avuto la fortuna di conoscere quell’esperienza.
Era il Settembre del 2013, Pisa, o per meglio dire buona parte di essa, in quei “caldi” giorni stava difendendo un sogno, l’occupazione o per meglio dire la liberazione dell’ex colorificio toscano. L’edificio occupato un anno prima era in quel momento sotto provvedimento di sgombero e fu in quel mese di inizio autunno che ebbe luogo una tre giorni ricca di idee, proposte e istanze venute dal basso segnate da forte partecipazione collettiva, erano i giorni di “COMMON | PROPERTIES. Lavoro Diritti Territori”, iniziativa lanciata dal Municipio dei beni comuni. Tavoli di lavoro, assemblee plenarie e momenti culturali; quei giorni furono scanditi da un flusso incredibile di soggetti pronti a parlare e ad illustrare il loro ideale di società sui svariati temi.
Le università nipponiche sempre più coinvolte in progetti di ricerca di natura militare: in dicembre dello scorso anno la scuola di specializzazione postlaurea di Scienza e Tecnologia dell'Università di Tokyo ha modificato le proprie linee guida sulla ricerca inserendo un'ambigua formula che non consentirebbe ricerche di natura bellica unicamente “qualora i risultati di tali ricerche siano mantenuti segreti”.
Subito dopo la modifica i quotidiani Sankei Shimbun e Yomiuri Shimbun avevano affermato che, nei fatti, si rimuoveva ogni ostacolo alle ricerche scientifiche a scopi bellici, affermazione smentita dal presidente dell'ateneo.
Una grande commemorazione si è svolta, lo scorso 9 marzo, in occasione del settantesimo anniversario del bombardamento di Tokyo. “Fino a quando sarò viva, continuerò a lavorare affinché i popoli nel mondo siano amici” ha dichiarato Kayoko Ebina, tra le organizzatrici della cerimonia e rimasta orfana in conseguenza di quel bombardamento.
Ogni tanto la patina di silenzio dei media è costretta a lasciare emergere qualche spiraglio di luce dalle condizioni reali di chi, lottando disperatamente, cerca di rivendicare condizioni di vita e di lavoro più degne e più umane. Così, capita che persino il Wall Street Journal (il primo quotidiano americano online che si occupa principalmente di finanza, fino al 2007 di proprietà della Dow Jones & Company e poi rilevato da Rupert Murdoch) arrivi a interessarsi delle condizioni degli operai edili migranti del Dubai (leggi qui). E così emergono per un istante queste rivolte dei neo-schiavi sconosciute ai più, su cui prontamente il vortice massmediatico riesce a chiudere ogni approfondimento delle condizioni reali di lavoro di questi per poi ritornare subito a fagocitare gli animi verso i nuovi orizzonti di sviluppismo più sfrenato.
Il Grande Fratello vince su Spartaco, puntualmente. Anche la notizia più tragica diventa una merce che nel mondo delle big corporation dell'informazione si deteriora rapidamente una volta venduta. Ebbene, le rivolte degli operai nel Golfo non sono certo una notizia su cui si può sorvolare facilmente, tanto più che avvengono ormai da nove anni a questa parte (il primo grande sciopero risale al 2006) e in nazioni in cui i diritti politici e civili semplicemente non esistono, ma con le quali l'Occidente continua a intrattenere rapporti economici e politici senza che nessuno si scandalizzi più di tanto. Se non fosse stato per il solenne rifiuto della first lady Michelle di indossare il velo alla cerimonia funebre del re saudita Abdullah nessuno saprebbe delle tragiche condizioni dei sudditi sauditi, però il petrolio serve e d'altra parte non è un segreto che il prezzo del petrolio sia finito al centro dell'attuale scontro economico e geopolitico mondiale, quindi i peroratori del diritto umanitario dovranno accontentarsi del coraggio di Michelle. Ad esempio la legge negli Stati retti dagli emiri vieta espressamente gli scioperi, ma questi avvengono ugualmente grazie ai veri atti di coraggio di lavoratori che, seppur puntualmente repressi con la deportazione, decidono di lottare pagandone tutte le tragiche conseguenze sulla propria pelle, come è accaduto ai capi della rivolta sindacale dell’Arabtec colosso delle costruzioni che ha realizzato, tra l’altro, il Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo (830 metri) che ospita l’Hotel Armani con camere da 700 euro a notte.
Ancora, in Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar è in vigore il sistema di reclutamento della manodopera detto della Kafala (garanzia) che lega indissolubilmente il lavoratore al proprio datore di lavoro, un sistema di reclutamento tanto libero e foriero di garanzie che assomiglia pericolosamente all'acquisizione di uno schiavo: un ufficio di collocamento nel paese d'origine trova un datore di lavoro disposto a sponsorizzare il lavoratore immigrato, che da quel momento non può cambiare posto di lavoro per tutta la durata del contratto. Chi si sottrae al sistema può essere incarcerato o, di fatto, sequestrato. Chi scappa è colpito da huroob, una denuncia che trasforma il lavoratore in una sorta di schiavo fuggitivo. La gravità del fenomeno è data proprio da ciò, dalla messa a sistema e dalle conseguenti dimensioni di massa del fenomeno che investe milioni di lavoratori e lavoratrici con svariate categorie che vanno dagli operai edili, agli addetti dei mega store, alle collaboratrici domestiche. I numeri sono veramente impressionanti e riportano tassi di suicidi e di morti sul lavoro crescenti. Per rendere l'idea dei diritti lavorativi si può descrivere il caso che nel maggio del 2011 fece scalpore innescando poi la rivolta all'Arabtec: Athiraman Kannan, operaio indiano di 38 anni che percepiva 150 euro al mese per 12 ore di lavoro su sei giorni settimanali, si lanciò dal 147˚ piano del grattacielo che stava costruendo dopo che il suo superiore gli rifiutò un permesso per tornare in India in seguito alla morte del fratello.
Dal 1998 ad oggi, cioè da quando si ha notizia delle condizioni di sfruttamento di queste masse di migranti in arrivo dalle zone povere dell'Asia (India, Nepal, Sri Lanka, Bangladesh, Indonesia e Filippine) e del Corno d'Africa (Somalia, Eritrea e soprattutto dall'Etiopia) i “migrant workers” hanno dovuto lottare praticamente per ogni cosa della loro vita quotidiana. Tuttavia, ogni minima conquista viene pagata dai lavoratori a carissimo prezzo se si pensa che nel solo 2013 sono stati espulsi per ritorsione centomila lavoratori dal solo territorio saudita.
È però opportuno ricordare che a beneficiare dei vari strumenti di irrigidimentazione della manodopera che noi consideriamo "immorali", dalla kafala all'huroob, sono spesso virtuose, evolute e idolatrate imprese occidentali che praticano l'unica legge conosciuta nel sistema capitalista: il profitto senza limiti. Per poter fare ciò simili oasi di schiavitù sono benedette come manna dal cielo anche dalle nostrane Alitalia, Piaggio, Eni, Eataly e Finmeccanica. I rapporti tra la nostra economia ancora troppo statalizzata secondo l'ideologia dominante e gli emiri che stanno facendo shopping in occidente non sono mai stati così intensi. Infatti, se l'episodio di Michelle Obama risale al 28 gennaio, l'ultima visita del nostro Presidente del Consiglio è di poco precedente e risale all' 8 gennaio. L'Expo, mastodontica operazione di greenwashing, non poteva che mirare a portare i fondi sovrani degli emiri a investire in Italia, rivelando quanto siano intersecate le questioni dello sviluppismo e dei nuovi settori tecnologici spacciati come ecofriendly. Il primo maggio (data simbolica) nei padiglioni dei paesi del Golfo saranno presentate soluzioni altamente tecnologiche per le energie rinnovabili e lo sviluppo sostenibile, evidentemente centrali proprio nel settore dell'edilizia, in cui il basso impatto ambientale delle costruzioni avveniristiche dettate dal sopracitato sviluppismo viene venduto con il paradossale slogan per una petrolmonarchia "l'acqua è più importante del petrolio". In realtà, come visto sopra, le connessioni tra l'economia italiana e quella degli emirati sono molto più estese e vanno dal settore della Difesa a quello della metallurgia fino a quello energetico, dei trasporti e ora pure del cibo Made in Italy di Farinetti. È chiaro che in materia commerciale i diritti umanitari non valgono, come non valgono i diritti civili e politici: tutto è valido purché segua le solenni leggi del profitto e giacché il profitto non è mai anomico, ma risponde alle leggi del Capitale, perché non chiedere agli emiri anche una mano per risolvere la questione libica? E infatti nell'ultimo incontro dell'8 gennaio si discusse anche di questo, cioè di come ingabbiare la manodopera che pretende di essere libera prendendo in parola coloro che vanno cianciando da un trentennio ormai di libertà dei mercati. Tuttavia, le varie monarchie ancora non si sono accordate per spartirsi le risorse petrolifere della zona, per cui è probabile che la guerra tra bande continuerà e che gli odiati "clandestini" continueranno ad "assediare" un'Europa che risponde divenendo sempre più fortezza.
Ecco che mentre l'assedio degli straccioni e dei poveracci impensierisce i leghisti, viceversa, lo shopping degli emiri è il benvenuto, e lo è a tal punto che un fondo qatariota lo scorso 27 febbraio ha acquistato una partecipazione pari al 100% del progetto Porta Nuova di Milano (380 unità abitative e 22 edifici, e non è che il caso più celebre) senza che i difensori supremi della "nostra" identità avessero nulla da eccepire.
Insomma, a proposito di argomenti totalmente insabbiati dai media, si potrebbe concludere dicendo che Mafia Capitale (vero specchio del nostro sistema politico-economico) ha dimostrato che il vero affare per l'una e l'altro è l'immigrato, il quale è importante risorsa politica ed economica proprio per coloro che vorrebbero chiudere le frontiere agli esseri umani ma non disdegnano invece l'apertura delle frontiere ai capitali cumulati con la sopraffazione più feroce.
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