Mercoledì, 16 Maggio 2018 00:00

La Terra promessa mancata׃ settant’anni dalla fondazione di Israele

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La Terra promessa mancata׃ settant’anni dalla fondazione di Israele

Il raduno degli esiliati e la pace del popolo ebreo. Era questa nella tradizione ebraica messianica la principale speranza per gli ebrei di tutto il mondo. Un ideale fisso sempre rimasto al centro dell’immaginario collettivo di questo popolo, nonostante le esperienze di vita ebraica differente.

Che fosse in un ghetto dell’Europa orientale o in una qualche multietnica città occidentale dopo l’abolizione dei ghetti, il principale elemento di unione era il ritorno in Palestina. A questo fine nacque in Svizzera il Movimento sionista internazionale di Theodore Herzl, che grazie ai fitti rapporti con il governo prussiano e britannico portò alla nascita delle prime colonie. Per la prima volta nella storia dai tempi della caduta di Gerusalemme del 70 d.C., insediamenti ebraici che si definivano tali civili e che non fossero colonie o scuole religiose vennero fondati da ebrei russi, tedeschi, polacchi ecc. L’epoca del kibbutz e il suo modo di concepire l’esperienza di vita ebraica furono il primo modello di colonizzazione della Palestina, in contrapposizione alle scuole religiose rabbiniche.

L’esplodere dei nazionalismi  in Europa, l’Olocausto e un nuovo violento antisemitismo accelerarono il processo di fondazione di uno stato ebraico in Terrasanta. Un processo che sia il movimento sionista, inteso come movimento nazionale laico e politico, sia la retorica religiosa legata alla tradizione messianica, vedevano nella sua conclusione una terra per il popolo ebreo riunito e in pace con i propri vicini. Un concetto quest’ultimo espresso chiaramente sia nella Bibbia che nella tradizione talmudica, oltre che la precisa volontà di Theodore Herzl e degli altri leader sionisti nel loro progetto di fondazione di Israele. Dalla violazione del Trattato del Libro Bianco e dalla violazione della scellerata dichiarazione di Balfour, questo intento è stato tradito prima dalle grandi potenze mondiali.

In seguito, con la spaccatura del movimento sionista e la decisione politica del primo presidente israeliano David Ben Gurion di ricorrere alla via militare per l’indipendenza insieme a un patto con la fazione più religiosa, anche gli israeliani tradirono questo principio. Dalla Guerra dei Sei Giorni in poi, Israele ha tradito ogni proposito di pace con i vicini stati arabi nati dalla decolonizzazione e ha tradito anche la sua ricercata identità ebraica. Un’esperienza di vita ebraica totale infatti dovrebbe essere un’esperienza pacifica non solo interna alla propria comunità, ma anche con i popoli vicini. Togliere la vita per un ebreo è un atto estremo e orribile. Così lo è opprimere un altro popolo: le condizioni del popolo palestinese sono disperate, il più grande popolo di profughi del mondo da decenni, oramai diviso in una frattura tra Cisgiordania e Gaza, ostaggio della violenza.

Israele è ben lontano dalla promessa che ha animato per secoli il particolare, quanto unico nella storia, immaginario collettivo del popolo ebreo. Non a caso le comunità ebraiche nel mondo rimangono ancora molto numerose. Non solo per la frammentata identità dell’ebraismo e del suo rapporto con la dimensione storica, ma per le condizioni di insicurezza in cui vive lo stesso popolo israeliano. I vari quanto illusori momenti di pace dall’assassinio di Rabin, unico leader israeliano capace di pensare a una politica più lungimirante, sono forse definitivamente spariti con il massacro di ieri davanti all’ennesimo gesto provocatorio del presidente Benjamin Netanyahu, con l’apertura del consolato statunitense a Gerusalemme.

Ancora una volta quella terra e i suoi popoli sono vittima di una intricata politica internazionale più ampia, che coinvolge le schermaglie tra Iran e Arabia Saudita, specchio di un mondo arabo diviso e conflittuale. In questo Benjamin Netanyahu e il governo israeliano si sono dimostrati uguali ai tanti tiranni (o presunti tali) detronizzati in Medio Oriente in questi anni. Non c’è alcuna differenza tra il massacro di ieri e i numerosi episodi di violenza e repressione a Gaza rispetto all’uso del gas in Siria. Si è emesso in passato condanne su sei dossier d’intelligence falsi, mentre a Gerusalemme la terra era disseminata di cadaveri e sporca di sangue. Benjamin Netanyahu e il suo governo, nel loro uso pubblico di retorica religiosa e nazionalista, nel loro simbolismo, non sono dissimili dai terroristi dell’Isis e dalla restaurazione teocratica ottomana in Turchia.

Quello di ieri è solo l’ennesimo episodio di terrorismo di stato ai danni di una parte della sua popolazione, oltre che l’ennesimo tradimento ai valori fondativi di Israele e di quell’ebraismo che si vuole tenacemente legare all’identità dello stato. La Terra promessa rimane un orizzonte lontano, così come la speranza di una pace in quel piccolo angolo di mondo. A cui tutti, da troppo tempo, presi a interessi maggiori ed egoisti, guardiamo con uno sguardo indifferente.

Immagine ripresa liberamente da reuters.com

Ultima modifica il Martedì, 15 Maggio 2018 21:02
Marco Saccardi

Nato a Bagno a Ripoli (FI) il 13 settembre 1990, sono uno studente laureato alla triennale di Storia Contemporanea presso l’Università di Firenze, adesso laureando alla magistrale di Scienze Storiche. Appassionato di Politica, amante della Storia, sono “fuggito” dal PD dopo anni di militanza e sono alla ricerca di una collocazione politica, nel vuoto della sinistra italiana. Malato di Fiorentina e di calcio, quando gioca la viola non sono reperibile. Inoltre mi ritengo particolarmente nerd, divoratore di libri, film e serie tv.

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