Tutto ciò che è sociale ma non riflessione sociologica, legandosi a quello che compone la realtà in cui viviamo.
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Parte I - Immigrazione italiana nella “nazione più felice al mondo” (secondo la definizione data dal rapporto Ocse 2013)
Mentre i populismi avanzano con progressi significativi solo sul campo del razzismo e della xenofobia, solleticando i peggiori istinti umani degli europei, in questo articolo mi concentrerò sul percorso inverso e speculare. Con l'appoggio dei dati statistici (per la prima volta dopo decenni nel 2013, secondo dati OCSE, si è registrato il sorpasso dei flussi in uscita dall'Italia su quelli in entrata, ovvero il ritorno all'emigrazione) evidenzierò come, in realtà, a far preoccupare sia il fenomeno opposto, cioè la perdita di risorse umane, e non l'eccesso, come si vuol far credere seguendo l'ideologia che sorregge questo sistema economico. Chi volesse analizzare con lucidità i dati del fenomeno scoprirebbe ad una prima occhiata almeno tre ovvietà:
La prima parte, rapporti di lavoro e salario qui
3. Gli ammortizzatori sociali
Se a qualcuno oramai fregasse ancora qualcosa di quella roba chiamata costituzione, il tema del welfare si esaurirebbe dando esecuzione a quanto previsto da una manciata di articoli della carta.
L'articolo 2 pone i principi di uguaglianza formale davanti alla legge: tutti i cittadini hanno “pari dignità sociale”, mentre l'articolo 3 chiarisce il ruolo dello stato nella tutela del cittadino: è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica del Paese.
L'applicazione di questo principio dovrebbe portare alla realizzazione di un sistema di sicurezza sociale un po’ più civile della beneficenza, della tutela a carico della famiglia, e magari anche di quei sistemi assicurativi che discriminano i cittadini in base al contratto di lavoro che si ritrovano ad avere nel momento sbagliato della loro vita (malattie, infortuni, invalidità, disoccupazione involontaria, vecchiaia) oppure quando, improvvidi, decidono di farsi una famiglia senza la benedizione del contratto di lavoro subordinato. Per l'articolo 31, infatti, la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi.
Nella realtà, e alla faccia della Costituzione, Il sistema di protezione sociale Italiano nasce per tutelare unicamente l'impiego del capofamiglia, avendo come modello il maschio (eterosessuale) breadwinner, con barriere ai licenziamenti piuttosto che assicurazioni contro la disoccupazione, con scarsissime tutele per le lavoratrici donne (che il sistema così come è costruito incentiva ad uscire dal mercato del lavoro, caricandole della cura dei figli e degli anziani) e affidando alla famiglia il ruolo di unico vero ammortizzatore sociale universale.
Le tutele, in questo paese, appartengono tradizionalmente ai soli lavoratori dipendenti. Qualsiasi lavoratore non abbia un contratto subordinato a tempo indeterminato di questo sistema è un figlio bastardo.
E' per questo che continuare a effettuare correzioni all'impianto esistente è un metodo di lavoro che a noi non piace. Il sistema degli ammortizzatori sociali in questo paese va buttato e rifatto da capo, magari, banalmente, attuando quanto previsto dalla costituzione.
Così come in molti paesi europei, crediamo che un sistema di protezione sociale universale debba essere basato su un'unica assicurazione nazionale, che ogni lavoratore sia obbligato a versare contributi proporzionalmente al reddito, e che le tutele previste dal sistema non facciano distinzioni basata sul tipo di contratto.
La tutela dalle discontinuità reddituali, sia parziali (calo del reddito in costanza di rapporto di lavoro), sia causate dalla sospensione dell’attività lavorativa, deve quindi essere estesa anche ai lavoratori autonomi, e deve valere per tutti il principio che alla tutela del reddito si accompagna il versamento dei contributi figurativi.
Inoltre, alla tutela dei redditi da lavoro deve essere affiancata una tutela del reddito legata alla cittadinanza, coperta dalla fiscalità generale, che assista chiunque si trovi in condizione di difficoltà e che non abbia una copertura assicurativa maturata. Questa copertura deve riguardare anche chi è colpito da malattie con degenza prolungata che allontanano per lunghi periodi dal lavoro.
Una forma di reddito minimo dovrebbe coprire anche i periodi di studio ed il percorso di ricerca del lavoro all'uscita della scuola superiore o dell'università. Una misura del genere avrebbe l'effetto di spezzare il meccanismo del ricatto della precarietà e dei bassi salari, oltre che consentire a chiunque di proseguire il proprio percorso di studi fino alla laurea indipendentemente dalle condizioni economiche familiari.
Un ufficio scolastico territoriale - quelli che un tempo in maniera altisonante si chiamavano “provveditorati agli studi”- di una città di provincia, di quelle ricche e rosse oltre l'appennino. Pomeriggio tranquillo con solo qualche schizzo di pioggia e l'immancabile funzionario di polizia a far da compagnia ai circa trenta docenti riunitisi davanti i cancelli dell'edificio che ospita la locale legazione del MIUR.
Le motivazioni della mobilitazione sono apparentemente incomprensibili, e ognuno che abbia – a qualsiasi titolo – incrociato il lavoro, onorevole e frustrante, dei precari della scuola non potrà che convenire che alcune cose possono capitare solo quando lo Stato smette di garantire il bene comune, abbracciando il ruolo di opportuno miscelatore di interessi e di poteri.
Più cielo per tutti. Ma con tante nuvole, e di tempesta per giunta. Eccezion fatta per gli addetti ai lavori, e neppure per tutti, è stato un fulmine a ciel sereno la notizia dell'esito del congresso nazionale dell'Arci, svoltosi a Bologna quest'ultimo fine settimana, da giovedì a domenica e chiusosi con un doloroso niente di fatto.
Una delle più grandi, ultime, organizzazioni laiche e di massa in Italia, proveniente dalla più consolidata delle tradizioni unitarie, al punto di non aver mai affrontato in quasi sessant'anni di storia un appuntamento congressuale diviso fra due candidati, è piombata in pochi giorni in una specie di incubo, attraverso il quale si è infranto l'antico “ecumenismo” da casa comune della sinistra italiana, forgiato nel culto di quella “sintesi” che tanto era cara alla tradizione progressista all'ombra del PCI.
Eppure la sintesi fra Filippo Miraglia e Francesca Chiavacci, rappresentanti rispettivamente di due visioni dell'associazione che si radicano territorialmente in aree geografiche ben distinte, principalmente a sud, in Liguria e nel Nord-Est il primo e nelle storiche regioni rosse (foriere di quasi metà delle tessere) la seconda, era stato dato nei pronostici come probabile fino alla fine. Speranze probabilmente fiorite fra le file di un'organizzazione oggettivamente inesperta di congressi battuti a colpi di fioretto dal palco e in mezzo alla platea dei 579 chiamati al voto, delega in vista e coltello fra i denti. Uno scenario al quale domenica hanno invece assistito, fra il partecipe e l'incredulo, tutti i presenti nel Salone del Podestà del palazzo di Re Enzo.
Da una parte, quindi, gli storici insediamenti della Toscana, dell'Emilia Romagna e del Piemonte, nati presso le case del popolo con i loro servizi e le conseguenti forme di organizzazione dell’esistente, ma anche con sensibilità vicine ai partiti politici che in questi anni hanno governato quei territori. Dall’altra le giovani leve cresciute nei movimenti dei Social Forum, da Genova a Porto Alegre, che oggi rivendicano non solo un cambio generazionale, ma un’Arci molto più schierata, assolutamente non neutrale rispetto alle grandi questioni che in queste sedi si discutono: un nuovo modello di sviluppo, la lotta al precariato, un’alternativa per l’Europa, e dunque di conseguenza con forme organizzative più flessibili e inclusive. Due sensibilità che però paradossalmente si scambiano di ruolo, per ciò che ci si potrebbe attendere, nel momento che si va a vedere il rapporto con la vecchia dirigenza. Al centro di tutto le modalità con le quali utilizzare i soldi del tesseramento e non solo, al fine di gestire un debito crescente dell'organizzazione, accumulato negli ultimi anni. Una situazione non facile che molte parti dell'associazione, in modo trasversale, spinge molti a guardare ad una riorganizzazione dei quadri dirigenti.
Il campo di battaglia, neanche a dirlo, è stata la commissione elettorale. Tale infatti il consesso dal quale l'ultima decisiva spaccatura si è consumata, materializzandosi all'ora di pranzo, in un crescere di tensione, in due contrapposti meccanismi elettorali per la composizione del consiglio nazionale (75 proporzionale e 25% a tutela delle regioni «di frontiera», oppure rispettivamente 65% e 35%), organo adibito all'elezione del presidente. Il picco della tensione si è avuto però quando, in merito al voto su queste due opzioni, chiaramente due composizioni matematiche prive del minimo spirito di sintesi ed entrambe volte a favorire l'uno o l'altro schieramento, c'è stata la richiesta da parte del gruppo Miraglia di voto segreto. Una proposta discutibile più nella prassi che nei regolamenti, contro la quale però si è scagliata la risposta durissima dell'altro fronte, capitanato dalle delegazioni di Toscana ed Emilia che hanno minacciato a quel punto di abbandonare il congresso. Momenti concitati, tavolo di presidenza assediato, proposta di voto segreto ritirata. Ma il fronte Miraglia a questo punto non ci sta e si tira indietro sul voto. E' a quel punto, dopo una pausa di mezz'ora circa, che salta fuori fra le contestazioni la proposta di congelare il congresso, da riconvocare entro il 30 giugmo. Il “comitato dei garanti”, soluzione fin troppo nota alle cronace della sinistra degli ultimi tempi, sarà composto dai 17 presidenti regionali dell'Arci più il presidente uscente Paolo Beni.
Una situazione, in definitiva, figlia di una mediazione decisamente tardiva, iniziata ingenuamente da parte delle “colombe” e dello stesso presidente uscente solo nelle ultime concitate ore del congresso. Ma anche l'esito paradossale di un'organizzazione statutariamente impreparata ad affrontare uno congresso “a mozioni” che invece non si era realizzato in tutti i passaggi intermedi, nei congressi territoriali e regionali. Una platea composta con criteri unitari, mettendo peraltro in pratica tutte le assodate dinamiche di compensazione della debolezza storica di certe regioni del sud (spesso rappresentate oltre il mero criterio del numero di tessere).
Resta, comunque, l'evidenza di una crisi, analoga a quella che sta attraversando un'altra organizzazione già legata alla sinistra italiana, la Cgil. Ennesimo sintomo di un processo ormai evidentemente in atto a sinistra e che non accenna a diminuire. Nel cielo per tutti anche per oggi non si vola.
Dall'annuncio del nostro amato (ex) sindaco, come suo costume del tutto privo di contenuto e buttato li solo per fare clamore, un po' chiunque si è cimentato nel criticare una cosa che non c'era (anche con effetti piuttosto ridicoli) . Pochi altri, magari un po' ingenuamente, hanno colto la possibilità offerta dal clamore mediatico del jobs act (poveri noi!) di rilanciare un dibattito sul lavoro, non criticando il piano invisibile di Renzi ma offrendo le proprie idee alla discussione (più o meno consapevoli che il loro sforzo intellettuale andrà sprecato, invero). Può quindi questo giornale sottrarsi alla sfida di dire delle clamorose ovvietà sul mercato del lavoro che dovrebbero essere scontate per tutti e che, quindi, non vedranno mai il voto in parlamento? Certamente no!
E quindi, here is our jobs act.
1. I rapporti di lavoro
Un po' come chiunque, e siamo consapevoli di essere banali, anche noi riteniamo imprescindibile una riduzione delle forme contrattuali messe a disposizione negli anni dal legislatore ai datori di lavoro, con l'esplicito intento di confondere la materia in modo da rendere più facile operare nell'illegalità sicuri di farla franca davanti all'ispettore della Direzione Territoriale del Lavoro o davanti al giudice. Un cambio di rotta importante sarebbe cominciare a chiamare le cose con un nome solo.
Tra le vittime della crisi e delle politiche antipopolari del liberismo sono in primo luogo le donne. Non ci viene ricordato dalla retorica mediatica e politica molto spesso: ma sono donne la maggioranza dei disoccupati, di quel piccolo lavoro finto indipendente che serve ad arrotondare entrate familiari insufficienti, del precariato; sono donne le persone che l'immiserimento delle famiglie e la distruzione o il rincaro dei servizi sociali di assistenza, per l'infanzia o per la terza età non autosufficiente stracaricano del cosiddetto lavoro di cura; sono donne le persone che si sorbiscono le urla e i ceffoni di mariti frustrati e incazzati il cui lavoro è a rischio, sono in cassa integrazione, hanno la fabbrica occupata, sono esodati. La lotta delle donne per l'emancipazione e per l'eguaglianza dei diritti e delle condizioni di vita incontra oggi difficoltà superiori a quelle dei primi trent'anni di movimenti femminili
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