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Estetica dei ricordi annebbiati: documentario sugli Slowdive
Recensione del documentario sull’influente gruppo inglese
C’è stata una breve ma intensa stagione musicale nel Regno Unito, schiacciata fra i fasti della new wave degli anni ottanta e la patina del brit-pop della decade successiva, a lungo rimasta piuttosto nell’ombra ma che nel tempo è stata profondamente recuperata e rivalutata: si tratta del movimento shoegaze, un genere interessato a mescolare il candore etereo del dream pop con il rumorismo riverberato della psichedelia.
Una delle più importanti magazine musicali, Pitchfork, ha da poco realizzato un interessante documentario (disponibile qua) lungo poco meno di un’ora su uno dei protagonisti di questa oscura ma eccitante scena musicale, ovvero gli Slowdive, formati a Reading nel 1989 dall’incontro artistico e sentimentale fra Rachel Goswell e Neil Halstead.
Un montaggio eccellente, unito alle lunghe interviste originali ai membri della band, al loro produttore e all’ingegnere del suono, contribuiscono a definire un documentario pregevole che rende giustizia a una delle più sottovalutate band inglesi degli anni novanta, a lungo assurdamente marginalizzata anche dalla critica alternativa della terra d’Albione.
Pronti via, dopo due minuti senti le note della bellissima colonna sonora di John Williams (adattata magistralmente da Micheal Giannino) e ti ritrovi scaraventato indietro nel tempo a quando eri bambino, che guardavi con lo stesso sguardo rapito del dottor Grant un brontosauro issarsi sulle due zampe posteriori per arrivare a strappare le foglie più in alto di un albero. Perché questo è il sequel della fortunata saga “jurassica”: un omaggio al capolavoro di Spielberg e un tentativo ben riuscito di far tornare alla luce un mondo che avevamo lasciato completamente in rovina nel terzo film.
The salvation: un western in salsa danese
C'era una volta un genere prettamente americano che ha fatto la storia del cinema mondiale. Ha inventato nuove inquadrature, nuovi modi di concepire la settima arte. Sto parlando del Western. Un genere fondamentale all’interno della storia del cinema, un genere fatto di azione e dinamismo ma anche di profonde riflessioni che, nel tempo, hanno cercato di raccontare la nascita di un’intera nazione. Nel bene, come nel male.
Thee Oh Sees: Il ritorno dei filologi del garage rock lisergico
Recensione dell’ultimo lavoro “Mutilator Defeated at Last”
Alla fine si ritorna sempre là. Alla seconda metà degli anni sessanta e a ciò che quegli anni hanno significato per la storia della musica. Si ritorna a un periodo in cui la controcultura aveva per un breve periodo trasformato il rock nella più credibile espressione del malcontento generazionale e del desiderio di trasformazione radicale.
Sappiamo tutti come andò a finire: la rivoluzione verrà ricondotta all’interno dei sicuri binari dell’establishment, la contestazione messa a tacere, la controcultura ridotta a una moda passeggera. Eppure si fa fatica a trovare ancora oggi un musicista che non sia stato direttamente o indirettamente influenzato da quanto è stato scritto e cantato durante quegli anni di fibrillazione e di eccitante creatività. C’è chi poi di quel periodo ne fa un vero e proprio culto.
La provocazione artistica non può prescindere dal contesto, ma può fare a meno dello stile e dell'opportunità di alcune scelte. Peter Greenaway riesce a concentrare nella sua nuova pellicola una lunga serie di profanazioni. La bandiera rossa issata tra le natiche di un uomo a cui è stata appena tolta la verginità anale. La riduzione di un'icona della cultura ad archetipo dell'artista infantile, fragile ed estroverso. Uno sguardo beffardo e cinico sulla storia e sugli ideali che la muovono. Su questo ultimo punto è lo stesso regista a specificare la sua posizione: esistono solo buoni scrittori e narratori, l'esistenza di una memoria oggettiva è impossibile.
La fede può fare miracoli. Nella canna di un fucile.
Questo film è uscito a fine 2014 negli USA e progressivamente in tutto il mondo. Gli ultimi ovviamente siamo noi italiani. Questa volta il problema è stato il fallimento della società di distribuzione Moviemax che aveva comprato i diritti in esclusiva. Poi è arrivata l'Andrea Leone Group (la società dei figli dell'indimenticato Sergio Leone) che, insieme ad Andrea Occhipinti di Lucky Red, ha rimediato facendo arrivare (a giugno,in tremendo ritardo per via dei tempi di doppiaggio) la pellicola anche da noi. C'è da dire che,mentre "Third Person" di Paul Haggis e "Fury" di David Ayer sono stati distribuiti (in ritardo d'accordo ma sono stati fatti), ci sono film come "The zero theorem" di Terry Gilliam che non arriveranno mai nei nostri cinema. Censura? Probabile. Il silenzio regna sovrano. Si sa che gli italiani hanno la mente corta. Figuriamoci i cinefili.
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