Dalla divulgazione scientifica alle recensioni di romanzi, passando per filosofia e scienze sociali, abbracciando il grande schermo e la musica, senza disdegnare ogni forma del sapere.
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Scrive André Gorz, filosofo e giornalista francese, nel suo “L’ecologia politica, un’etica della liberazione”:
“Se si parte […] dall’imperativo ecologico, si può arrivare tanto ad un anticapitalismo radicale quanto […] a un comunitarismo naturalista. L’ecologia non ha tutta la sua carica critica ed etica se le devastazioni della terra, la distruzione di un modo di vita non sono comprese come le conseguenze di un modo di produzione; se non si comprende che questo modo di produzione esige la massimizzazione dei rendimenti e ricorre a delle tecniche che violano gli equilibri biologici. Ritengo dunque che la critica delle tecniche nelle quali si incarna il dominio sugli uomini e sulla natura sia una delle dimensioni essenziali di un’etica della liberazione” [1].
Il mondo in cui oggi viviamo è sempre più “inquinato” (in tutti i sensi!) da un capitalismo sfrenato che risucchia entro la sua sfera inglobante qualsiasi dimensione umana. La tecnica, il consumismo, il denaro elevato a potenza quasi mitica che fa girare il mondo, l’individuo ridotto a pedina o spettatore assente di fronte a una società che sempre più può essere caratterizzata come “società dello spettacolo”, riprendendo l’omonimo titolo di Debord.
La crescita di consensi dell’estrema destra xenofoba e populista costituisce indubbiamente uno degli elementi fondamentali dell’Europa dei nostri giorni. La crisi economica e sociale che ha travolto il mondo occidentale e il processo di crescente impoverimento di larghi strati popolari e dei ceti medi ha investito anche le architetture istituzionali liberaldemocratiche. Sono numerosi i commentatori e gli analisti che evocano scenari “weimariani” di fronte ai successi elettorali delle formazioni più o meno dichiaratamente fasciste e al moltiplicarsi di pratiche, discorsi e atti che richiamano il passato più buio della storia continentale.
"Immagine di un paese alla deriva" di Andrea Vitali
Come ha scritto qualche giorno fa Irene Polverini su Il Becco, “Il capitale umano” è un film di un “Virzì che non ti aspetti”. E non mi trattengo dal dire che probabilmente è la sua opera più completa e matura, perché semplicemente diversa dalle sue pellicole precedenti. Il regista livornese si è liberato di quella comicità toscanaccia e dolorosa alla quale eravamo da sempre abituati e (almeno per i fans) affezionati, andando ad abbracciare il drammatico e il noir.
Girato a Varese (e non più nella natale Toscana), “Il capitale umano” è l’immagine perfetta di un paese che va a rotoli economicamente, dove la cultura la si sostituisce costruendo appartamenti e dove non esistono rapporti umani o, meglio, dove ne esistono pochi e fragili. C’è Dino, immobiliarista che si fa fare un prestito a cinque zeri da un amico banchiere, per reinvestirli come quota nel gruppo di Giovanni, speculatore finanziario interpretato da un perfetto Fabrizio Gifuni. Poi, come spesso succede di questi ultimi tempi, i mesi passano e i guadagni sperati non arrivano, il debito deve essere pagato e la casa ci va di mezzo.
Il sesso aumenta il numero di spettatori, si sa. Viene percepito come elemento di provocazione anche sul grande schermo, nonostante appaia abbastanza anacronistico con la diffusione del web tra le nuove generazioni. Quindi rimane l'interrogativo sul perché di tanta ostentazione. Alla fine della pellicola ci si arriva: c'è un autocompiacimento ai limiti dell'insopportabile di Cormac McCarthy, consacrato dal grande pubblico come genio dopo Non è un paese per vecchi (tratto dal suo romanzo) e qui alla sua seconda sceneggiatura, dopo una prima esperienza nel lontano 1996.
Dialoghi che saltano fuori senza motivo, aspetti narrativi dati per scontato senza valide motivazioni, attori capaci che si scontrano senza amalgamarsi, un ritmo incapace di decidersi tra la tensione narrativa (mai ottenuta) e il dramma esistenziale degli uomini (senza raggiungere mai un livello di riflessione innovativo o quantomeno originale).
Spesso si rasenta la noia, senza addormentarsi ma interrogarsi sul senso di passare due ore davanti a questo film, uno spreco di regia e di recitazione.
Quando ci si vuole celebrare si rischia di fare un disastro ed è effettivamente quasi impossibile salvare la storia con un buon Ridley Scott e stelle holywodiane in ottima forma. Sfigura solo Michael Fassbender. Glaciale e splendida Cameron Diaz, che però non fa dell'età un punto di forza e appare invecchiata. Brillante e piacevole Javier Bardem, a causa della storia inutile Penelope Cruz. Il ricordo migliore lo lascia Brad Pitt, una comparsa che in più riprese risolleva lo spettatore (senza però sfuggire dalla discutibile sceneggiatura, che non rende ben chiaro il perché della storia).
Ci fosse qualcosa di realmente innovativo, non importerebbe l'assenza di un senso specifico. Il fascino della lentezza, l'indeterminazione del messaggio, un semplice quadro cinico della realtà (attraverso tonalità surreali): c'era già Non è un paese per vecchi.
Ingiustificate le pretese che stanno dietro a questa operazione cinematografica. Un peccato. Commercialmente è uno stile che paga, perchè la provocazione estetica è meno impegnativa di quella sostanziale.
Il nichilismo è un'altra cosa, non è il vuoto ridondante.
[Voto 5 su 10]
[The Counselor, USA, Gran Bretagna 2013, thriller, durata 111', regia di Ridley Scott]
Immagine tratta da www.comingsoon.it
L'adattamento di un romanzo noir ambientato nel Connecticut poteva sembrare una sfida troppo ambiziosa per Paolo Virzì, che negli anni ci ha abituato a ritratti intimistici e familiari dell'Italia provinciale.
Il capitale umano si rivela invece, a sorpresa, il suo film più maturo e potente, ottimamente scritto, girato e interpretato.
Un cameriere da catering viene travolto da un SUV mentre torna a casa in bicicletta a notte fonda e viene lasciato agonizzante sul ciglio della strada. Questo evento drammatico, in un lento affiorare di indizi e dettagli, andrà a incidere sulla vita di due famiglie di diversa estrazione sociale: gli Ossola e i Bernaschi.
Quasi parallelamente, la narrazione di Virzì si dipana in tre capitoli, dedicati ai tre personaggi principali, Dino, Carla e Valeria, e solo nel quarto e ultimo capitolo la trama è completamente spiegata, in un epilogo che non può lasciare indifferente lo spettatore.
"Pensavamo che la visibilità corrispondesse alla realtà.
Non calcolavamo come nel voto le masse di coloro che non partecipavano diventavano maggioranza"
[Vittorio Foa e Aldo Natoli]
Aldo Natoli nasce a Messina il 20 settembre del 1913. Ricopre incarichi all’interno del Partito Comunista Italiano ed è deputato dalla prima legislatura della Repubblica italiana. Tra le sue esperienze c’è quella di capogruppo nel comune di Roma e una stretta collaborazione con Longo, prima che quest’ultimo diventasse segretario del PCI, dopo la morte di Togliatti. Nel 1969 verrà espulso insieme al gruppo de il Manifesto, ma presto prenderà le distanze anche da questa realtà: «il modo in cui funzionava la redazione era praticamente del tutto arbitrario, del tutto soggetto agli umori, soprattutto, di Rossanda e un po' anche di Pintor». Muore l’8 novembre del 2010.
Vittorio Foa nasce a Torino il 18 settembre del 1910. Eletto deputato all’assemblea costituente con il Partito d’Azione, con lo scioglimento di quest’ultimo, passa al Partito Socialista Italiano. Ha un ruolo di primo piano nella Cgil di Di Vittorio, diventando segretario della Fiom nel 1955. Nel corso della seconda metà del ‘900 ha partecipato a diverse esperienze politiche (fra cui PSIUP, PdUP, Democrazia Proletaria), incrociando più volte il gruppo de il Manifesto e lo stesso Natoli. Nell’ultima parte della sua vita sostiene la nascita dei Democratici di Sinistra e del Partito Democratico. Muore il 20 ottobre del 2008.
Nel dicembre del 2013 Editori Riuniti ha dato alle stampe “Dialogo sull’antifascismo il PCI e l’Italia repubblicana”, che è un’intervista di Foa a Natoli (lunga circa 300 pagine) registrata con un magnetofono a cavallo tra il 1993 e il 1994. La scelta del titolo potrebbe dare l’idea di un testo in cui le due voci si confrontano alla pari, ma in realtà è una ricostruzione delle esperienze di Natoli alla luce della curiosità di Foa, la cui vita emerge solo parzialmente, a fronte di una più sistematica ricostruzione dell’intervistato.
Non c’è alcuna estemporaneità nel lungo dialogo, che sorvola sulle vicende di quel tempo e si concentra sulla prima metà del XX secolo: il fascismo, la clandestinità, il carcere, la Resistenza, la nascita della Repubblica, la svolta di Salerno, i primi governi democratici, la repressione dei comunisti da parte dei governi democristiani, il primo centrosinistra italiano, la morte di Stalin, la morte di Togliatti, il Vietnam, l’espulsione del gruppo de il Manifesto e nella parte finale una breve riflessione sulla rivoluzione culturale di Mao. Su questo ultimo passaggio termina il libro, che più che chiudersi si interrompe. Resta la sensazione di aver solo sfiorato la profondità di due esperienze storiche che hanno attraversato attivamente la storia d’Italia, fuori dalle ricostruzioni schematiche e dalle semplificazioni.
Ingrao appare come una figura che affiancò Natoli nella nascita di una corrente di sinistra all’interno del PCI, dopo la morte di Togliatti, in risposta alle proposte della destra di Amendola. Rispetto a questi protagonisti del comunismo italiano, che avrebbero fatto scelte completamente diverse da quelle dei conversanti, non c’è alcun elemento polemico, nessun rancore. Non è un libro che ricostruisce gli eventi, dando giudizi sul passato. Si tratta di un interrogare se stessi sulle scelte fatte negli anni in cui andava definendosi la vita democratica della giovane Italia antifascista. Non si tratta neanche però di una riflessione astratta sul senso del fare politica. Quindi rispetto al carteggio tra Ingrao e Bettini, iniziato quasi negli stessi anni (1992) il livello della discussione è completamente diverso (come la natura del dialogo, articolato e intenso, ma concentrato in pochi mesi). Foa accompagna Natoli in una sorta di autobiografia critica sulle scelte di quest’ultimo negli anni ’50 e ’60, attraverso una più distaccata ricostruzione degli anni ’30 e ’40. I due appartengono a una generazione cresciuta all’interno del fascismo, “che non conosceva la democrazia”. Nel dialogo i primi anni di vita vengono considerati con lucidità ed una sincerità che lascia disorientati, per chi è cresciuto con i livelli dei confronti politici italiani del XXI secolo. Un esempio su tutti è il riconoscimento del trattamento privilegiato che viene loro riservato in carcere: «c'era una linea di classe nella polizia. […] Se uno era della borghesia lo rispettavano».
In tempi di anticomunismo da bancone del bar appare provocatoria la serenità con cui Natoli argomenta con lucidità il suo allontanamento dal Partito Comunista Italiano (e dal blocco sovietico). Anche qui nessun giudizio. Solo ricostruzione dei ragionamenti dell'epoca, senza negare i limiti soggettivi e senza sconfessare o rimpiangere niente.
La ricerca della verità come metodo rivoluzionario: assistere a questo dialogo riesce a relativizzare la dimensione del presente in un contesto storico più ampio. Una sorta di riscatto rispetto al pensiero unico che oggi porta anche la sinistra radicale ad essere subalterna anche da un punto di vista culturale.
Natoli e Foa sono distanti dalle esperienze del socialismo reale, ma anche i loro percorsi sono stati travolti dalle macerie del muro di Berlino. Sarebbe interessante arrivare a capire come abbia fatto il già segretario della Fiom a sostenere la guerra del Golfo del 1992.
Alla fine del libro sono riprodotte una serie di foto dei due autori. In una c'è la funzione del matrimonio tra Clio e Giorgio Napolitano, celebrata da Natoli. Lo stesso Napolitano che ha firmato la prefazione di un recente libro su Amendola. I ruoli che i protagonisti della prima repubblica hanno avuto nella seconda e le ultime scelte che alcuni di loro hanno fatto meriterebbe un'analisi attenta e complessiva.
Lo scorcio offerto dal Dialogo si limita però ad un periodo ben determinato, forse quello che i due riescono a ricostruire con maggiore serenità. Sono tanti gli spunti su cui riflettere, fra cui la reazione del PCI e della Cgil all’affacciarsi di una nuova generazione di operai comuni (diversi da quelli professionalizzati), che avrebbero scosso i meccanismi della rappresentanza, poi ulteriormente provati anche dal movimento studentesco e dall’emergere di numerose sigle extraparlamentari. Resta però la testimonianza di due antifascisti cresciuti nell’Italia fascista, il punto di vista parziale ma sincero di chi non costringe a leggere tra le righe, evitando rimpianti o rivendicazioni.
Il Dialogo sull’antifascismo di Foa e Natoli dovrebbe diventare un pezzo fondamentale nella formazione delle nuove generazioni, che però rischiano di non trovare il tempo di informarsi su chi fossero Togliatti e Secchia, troppo impegnate a seguire i tweet di Renzi o gli spettacoli di Grillo. Perché il nemico di classe ha vinto e la sconfitta dei comunisti italiani continua a travolgere ogni tentativo di ricostruzione. Prendersi il tempo e lo spazio per respirare l'aria del Dialogo è un modo per rivendicare e difendere la Costituzione scritta dalla Resistenza. Un'esperienza che fa bene alla mente e al cuore.
"Non si può costruire un'organizzazione se tu non dai un indirizzo politico generale, se tu non cerchi di formare un nucleo abbastanza grande di quadri convinti".
"La cancellazione è un modo di annientare i problemi o di impedire che sorgano, la gente semplifica la propria coscienza in questa maniera".
[Aldo Natoli]
Si consiglia la lettura anche dell'articolo di Alessandro Portelli da "il Manifesto" del 27 dicembre 2013, rintracciabile anche cliccando qui
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