Le arti in senso parziale e arbitrario: principalmente teatro (prosa e lirica), mostre e fotografia, senza rifiutare anche riflessioni più generali.
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Dopo la buona notizia dei soldi giunti da Roma e fatta vivere qualche giorno prima con una conferenza esplicativa, visite guidate al teatro e la proiezione di Ridendo e Scherzando, omaggio di Silvia e Paola Scola al padre ed al genio (tutte iniziative che ci dicono di un teatro aperto alla città e quindi pienamente utile), il Così fan tutte è più allegro.
Con le musiche di Mozart e il libretto di Lorenzo da Ponte (con gli accenni più misogini del Sannazzaro) resi nella regia del compianto Scola (ripresa da Marco Scola Di Mambro) la scuola degli amanti si svolge con limpidezza nell'importante e ricco allestimento (forse un filo rumoroso da spostare nei cambi di ambientazione) del Regio di Torino (utilizzato per la produzione del 2003, debutto di Scola alla regia lirica) e nelle scene di Luciano Riccieri trasportandoci - aiutati da costumi veramente splendidi - in quel finire del '700 lasciandoci in bocca un po' di quel pastoso caffè greco allora così di moda tra le élite.
E tra il nero del caffè e l'azzurro del mare il Così fan tutte si mostra per ciò che è: un turbinio di travestimenti e di camuffamenti identitari condito persino da uno scambio di sposi, quasi a dire che in fondo non soltanto la fedeltà ma lo stesso amore non sia poi questa gran cosa e che con estrema facilità la sognata propria metà diventa sostituibile (in Mozart e Da Ponte, nella vita è altra storia).
In questa Prima, sicura e senza sbavature è stata la direzione dell'inglese Webb (anche al pianoforte per i recitativi) e grande vivacità è stata resa dalle protagoniste femminili Ekaterina Bakanova (Fioridiligi, soprano) e Raffaella Lupinacci (Dorabella, soprano) magnifiche rispettivamente nella 14° e nella 28° aria in un'opera che chiede a chi la recita di piegarsi alla complessità dello spartito tra i saliscendi generati dal molto recitativo, dai momenti collettivi (a diverso numero di voci) e, per l'appunto, dalle prove individuali.
E bravissima è stata Despina (Barbara Bargnesi, Soprano) che a 228 anni di distanza dalla prima rappresentazione ci fa ancora ridere nelle sue vesti di finto notaio, finto medico e vera cameriera mostrando anch'essa - con un pizzico di disprezzo di classe per le due nobildonne - la propria dottrina di vita (“due ne perdete.Vi restan tutti gli altri”).
Attivi e valenti i due sposi promessi e finti ufficiali albanesi (nonché finti suicidi) Michele Patti (Guglielmo, baritono) e Blagoj Nacoski (Ferrando, tenore): l'applausometro del Carlo Felice ha impercettibilmente premiato più il primo.
Menzione speciale per Daniele Antonangeli che ha magistralmente reso il cinico Don Alfonso (basso), vincitore sì, ma di un'amara vittoria. Una vittoria da philosophe val bene una sconfitta da uomo che forse un giorno sognò anch'egli l'amore puro? Per Mozart sembrerebbe di sì.
E così portati sin dall'attacco dell'opera (quel a tutti noto “la mia Dorabella...”) fino alla morale del prendere “con buon verso” la vita siamo propensi a dare ragione a Don Alfonso ed alla sua filosofia da cento zecchini: almeno per una sera.
Nella foto Fiordiligi (Ekaterina Bakanova) e Dorabella (Raffaella Lupinacci). Foto Marcello Orselli - Teatro Carlo Felice
“Tutto nel mondo è burla”. E' in questa considerazione apparentemente leggera, ma nel suo fondo amara, che è racchiuso il Falstaff: sapiente lavoro librettistico di Arrigo Boito ispirato a due opere di Shakespeare ed ultima fatica operistica di un Verdi che, seppure ottantenne, ebbe il coraggio di rimettersi in gioco ad un'età nella quale adagiarsi sarebbe stato consentito a tutti.
A 123 anni dalla prima rappresentazione il Falstaff non perde la propria carica comica e, se vogliamo, didascalica. Prima di quel “tutto nel mondo è burla” è dal “tutti gabbati” che ci giunge infatti un insegnamento utile anche per l'oggi: anche per noi.
Inizia con l'opera, eterna nella propria attualità, dell'amore e del dolore la stagione lirica del Teatro Carlo Felice di Genova. Pubblico delle grandi occasioni per questa Traviata - uno dei maggiori lavori di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave - preceduta da uno spettacolo pirotecnico in piazza De Ferrari e dalla protesta dei lavoratori dell'Azienda Trasporti Provinciali al terzo giorno di sciopero per questioni legate all'integrativo dello stipendio (il sindaco, Marco Doria, si è detto disposto ad incontrali purché riprendano a lavorare).
Impeccabili la regia e la direzione (rispettivamente a cura di Giorgio Gallione e di Massimo Zanetti) e straordinariamente, ed opportunamente, essenziale la scenografia allestita da Guido Fiorato.
Dal preludio, che qui è stato caratterizzato da un'originale atmosfera plumbea, l'opera simbolo della cultura italiana nel mondo si dispiega in tutta la propria forza rivolgendosi al cuore di ciascuno con la violenza dell'amore “croce e delizia al cor” che sconvolge l'atmosfera festosa del salotto di madamigella Valéry.
Ottima la prova di Desirèe Rancatore (Violetta) capace di toccare le corde più nascoste del cuore nel fuggire (“sempre libera degg'io”), sia pure temporaneamente, dall'amore di Alfredo, incapace, nella cassaforte che ha creato per proteggere sé stessa, di credere che “un dì, felice eterea” qualcuno l'abbia vista rimanendone folgorato a tal punto da vivere di “ignoto amor” da quell'incontro.
Un Alfredo sottotono quello messo in scena da Giuseppe Filianoti, protagonista di una “stecca” nella prima scena del secondo atto e poi sostituito, a causa di un abbassamento di voce, nel finale dal tenore delle repliche: un ottimo William Davenport.
Resa con maestria da Vladimir Stoyanov l'austerità e la tenerezza di Giorgio Germont: applausi scoscianti per lui dal pubblico. Impossibile non commuoversi nella quinta scena del secondo atto, nella quale emerge, in pochissimi minuti, il mutare di atteggiamento di Germont nei confronti di Violetta e l'estrema generosità di quest'ultima, disposta, per amore, a negarsi la felicità.
Tutt'altro registro avrà la ripresa della stagione, il prossimo 20 gennaio, con il Falstaff, perché, in fondo: “tutto nel mondo è burla”.
Nella foto Violetta (Desirèe Rancatore) - fotografo Marcello Orselli, Teatro Carlo Felice.
Non era facile raccontare in maniera efficace storie di donne che hanno subito violenze, fisiche o psicologiche, sia all’esterno che entro le mura domestiche, ma la mostra fotografica curata da Ubaldo Dati e dal suo circolo fotografico “L’Altissimo” è riuscita pienamente nell’intento, senza cadere in una falsa retorica o nella ricerca forzata di immagini strappalacrime o troppo esplicite. La mostra, inaugurata già in occasione del Convegno “Amore, instabilità e violenza. Famiglie ieri ed oggi” tenutosi lo scorso novembre 2015 presso il Palazzo Ducale di Massa (nato da un’idea di Alessandra Cieli, co-fondatrice e vice-presidentessa dell’Associazione “Scritture femminili, memorie di donne”) è stata riproposta il 2 giugno, in occasione della Festa della repubblica e ospitata nella sede del Consiglio della Regione Toscana a Firenze (Via Cavour, 4) e resterà visitabile per ancora dieci giorni. A presentare la suggestiva e intensa mostra fotografica, oltre all’autore Dati, erano presenti anche Eugenio Giani, presidente del Consiglio regionale e Olga Raffo, presidentessa dell’Associazione “Scritture femminili, memorie di donne”, la stessa associazione che ha curato,
L’ultimo intervento della giornata dedicata ai paesaggi, in particolare nel Dittico dei Duchi di Pier della Francesca e nella Gioconda di Leonardo da Vinci, organizzata all’Istituto francese, è provenuto da due ricercatrici, Rosetta Borchia, artista e naturalista e Olivia Nesci, Professore di Geomorfologia, presso il Dipartimento di Scienze Pure e Applicate Sezione "Geobiologia, Patrimonio Culturale e Analisi del Paesaggio", dell'Università di Urbino. Costoro si autodefiniscono, al di là dei rispettivi titoli, “delle cacciatrici di paesaggi”. Il loro lavoro è durato dieci anni e l’intento di questo progetto era cercare prove materiali della realisticità, della topografia e della fisicità dei paesaggi che appunto adornano le suddette opere. Si tratta cioè di paesaggi fisici, reali, riconoscibili in un determinato territorio. Tale individuazione è iniziata, raccontano
Il semiologo Paolo Fabbri esordisce delucidando la possibile etimologia della parola francese paysage, da cui proviene il nostro italiano paesaggio. Il primo uso del termine paesaggio si ritrova in una lettera di Tiziano a Filippo II di Spagna, nel 1552.
Secondo un’ipotesi, paysage risulterebbe dalla coniugazione di pays e image. Indipendentemente dal fatto che questa ipotesi colga nel segno o meno, l’assemblaggio dei due termini sembrerebbe adeguato, dato che il paesaggio sarebbe l’unione di paese (da intendere probabilmente come spazio in senso lato) e di immagine. Se ciò fosse vero, dovremmo allora porci anche il problema della parola visage (viso), che a questo punto potrebbe essere l’“assemblaggio” di vis e image (immagine del viso), oppure anche di vis e paysage (paesaggio del viso), riscontrando così una stretta vicinanza tra visage e paysage, a differenza degli italiani viso e paesaggio, linguisticamente distanti.
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