Le arti in senso parziale e arbitrario: principalmente teatro (prosa e lirica), mostre e fotografia, senza rifiutare anche riflessioni più generali.
Immagine liberamente tratta da pixabay.com
Troppo spesso nella disamina più o meno convinta del patrimonio storico-culturale, paesaggistico e archeologico sentiamo risuonare il termine “parco”. Nell’immaginifico quotidiano il parco è quasi un sistema chiuso, ben coibentato rispetto al mondo esterno, da sfoggiare in maniera estremamente consumistica durante determinate occasioni “rituali”.
Abbiamo tutti negli occhi la situazione in cui versa il patrimonio soprattutto per quel concerne il sistema parco archeologico. Se infatti i parchi naturalistici stanno con difficoltà immani, sulla gestione e sulla valorizzazione resistendo agli attacchi dei non-investimenti nel settore. La risorsa archeologica, “confinata” spessissimo in delittuoso stato di abbandono.
C'è una via, a Firenze, dove l'asfalto si fonde con la memoria di un passato violento. Migliaia di turisti la lambiscono ogni giorno, mentre indaffarati nel dare un senso al loro viaggio fagocitano con una fotocamera frammenti di arte rinascimentale, destinata a divenire un mucchio di pixel da mostrare orgogliosi ai parenti. Qualcuno l'attraversa, ma in pochi forse ricordano: incastonata in un triangolo delle meraviglie, tra Ponte Vecchio, gli Uffizi e Piazza della Signoria, si trova via dei Georgofili. Qui, la notte del 27 maggio 1993, Cosa Nostra decise di estendere il metodo stragista adottando una strategia di carattere terroristico-eversivo, in una guerra allo Stato da condurre su tutti i fronti. “Ucciso un giudice, questi viene sostituito; ucciso un poliziotto avviene la stessa cosa, ma distrutta la torre di Pisa si distrugge un bene insostituibile con danni incalcolabili per lo Stato”, queste le parole del presunto trafficante di opere d'arte che suggerì agli esponenti mafiosi l'idea dell'attentato. L'autobomba, che causò cinque morti, quarantotto feriti e la distruzione della Torre dei Pulci, rappresentava la risposta della criminalità organizzata all'inasprimento delle pene previsto dall'articolo 41 bis, il quale comprendeva un regime di carcere duro e l'isolamento. L'esplosione causò anche il parziale danneggiamento di numerosi dipinti, nonché del complesso artistico-monumentale della Galleria degli Uffizi.
Il mondo delle macchine ha sempre un suo fascino. Arrivare ai limiti per vincere una gara è una condizione umana conosciuta dai tempi dell’antica Grecia e dell’Antica Roma. La tecnologia ora ci permette di assistere a gare su bolidi d’acciaio che superano i 300 kilometri orari, con persone straordinarie alla loro guida che mettono a rischio la loro vita solamente per un unico obiettivo: arrivare primi. Come il cinema, anche i videogiochi hanno sempre cercato di riproporre quelle emozioni e tutta la passione che c’è dietro il mondo dei motori. Turn 10, il creatore della Serie Forza, è sempre riuscito a ricreare questo mondo e l’ultima creazione in collaborazione con Playground Games, Forza Horizon 2, riesce anche a superare il limite della perfezione.
Guardate, fratelli miei, la primavera è arrivata;
la terra ha ricevuto l'abbraccio del sole
e noi vedremo presto i risultati di questo amore!
Ogni seme si è svegliato.
E così anche tutta la vita animale.
E grazie a questo potere che noi esistiamo.
Noi perciò dobbiamo concedere ai nostri vicini,
anche ai nostri vicini animali,
il nostro stesso diritto di abitare questa terra.
(Tatanka Iyothanka, Toro Sefuto, popolo Sioux)
Tra le iniziative della mostra Wo Lakota, organizzata dall’Associazione culturale Wambly-Gleska (Aquila Chiazzata) e presentata da Sergio Susani e Alessandro Martire Pelnty, direttore dell’Associazione, e inaugurata il 6 ottobre a Palazzo Medici Riccardi, mercoledì 8 ve ne è stata una molto particolare e suggestiva, innanzitutto per il contesto e l’ambientazione.
Articolo scritto da Chiara Del Corona e Lorenzo Palandri
Nell’ambito delle giornate dedicate alla Nazione Lakota, il 9 ottobre si è tenuta a Palazzo Medici Riccardi la conferenza dal titolo “Per un'Autostoria dei Primi Americani attraverso l’arte e la musica” presentata dalla Professoressa Naila Clerici che oltre ad insegnare Storia delle popolazioni indigeni persso L’università di Genova è anche presidente dell’associazione culturale, onlus, Soconas Incomindios, che riunisce coloro che ha il fine di promuovere in Italia la conoscenza delle culture, della storia e delle problematiche attuali dei nativi americani e favorire “la comprensione di un diverso lontano per capire meglio la nostra realtà e le dinamiche della comunicazione interculturale”.
La professoressa ha esordito sottolineando il termine auto storia coniato da un indiano Sioux canadese col quale si intende un diverso modo di raccontare la storia seguendo il punto di vista dei nativi stessi. I quali pur non avendo lasciato narrazioni scritte ci comunicano le proprie tradizioni e vicende storiche attraverso musica e arte. Proprio da queste inizia l’esposizione della Professoressa, che attraverso una raccolta di immagini figurativi ci ha portato all’interno del loro mondo così ricco e affascinante.
Quando ci si appresta ad analizzare la produzione di un artista, magari avendo dapprima visitato una mostra retrospettiva che ne riassume il lavoro, bisognerebbe essere obiettivi. Prendersi del tempo, lasciare che l'onda dell'estasi visiva s'infranga sulle rive dell'oggettivo e che ritorni indietro, come risacca tenue e posata, nel quieto mare dell'imparzialità. Così il nostro critico d'arte, giornalista o burattinaio di parole dovrebbe ricacciare in un angolo entusiasmo, adrenalina e quant'altro di riconducibile al sentimento, per evitare di distorcere la percezione dello spettatore nei confronti dell'oggetto in esame. Lo scrivente, convinto che l'equidistanza del “buon” giornalismo sia una chimera per nulla auspicabile, prega i gentili lettori di perdonargli fin d'ora l'incapacità di dissertare con lucido distacco, caratteristico delle istruzioni per l'uso. In compenso garantisce loro l'onestà intellettuale di chi rimette al pubblico il diritto di verificare, parola per parola, afflato per afflato, che quanto scritto aderisca alla pura realtà dei fatti. L'unica forma di oggettività che ci piace menzionare, semmai, è quella “nuova” e “tedesca” dei coniugi Becher, pionieri in bianco e nero della fotografia industriale nella Germania post-bellica.
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