Arti

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Le arti in senso parziale e arbitrario: principalmente teatro (prosa e lirica), mostre e fotografia, senza rifiutare anche riflessioni più generali.

Immagine liberamente tratta da pixabay.com

Venerdì, 15 Aprile 2016 00:00

Paesaggi tra pittura e fotografia

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L’Istituto francese di Firenze continua a stupirci con le sue molteplici, interessanti iniziative. Ieri, 11 aprile si è parlato di paesaggi, in particolare nel dittico di Urbino (1465-1472 circa) di Piero della Francesca, che ritrae il Duca Federico da Montefeltro e la consorte Battista Sforza e della memorabile Gioconda di Leonardo da Vinci. Il titolo della conferenza, curata da Isabelle Melliez, direttrice dell’Institut français di Firenze e da Maria Cristina Turchi, responsabile della promozione culturale all’estero della Regione Emilia Romagna, era infatti “Paesaggi di Piero della Francesca e Leonardo da Vinci. Alla ricerca dei paesaggi di Piero della Francesca e Leonardo da Vinci”. Il presupposto di partenza è il seguente: si tratta di paesaggi immaginari, non riconoscibili o sono paesaggi fisici, realmente esistenti o esisti? Possono cioè essere individuati topograficamente? Questo è stato l’esperimento di Rosetta Borchia e Olivia Nesci, la prima studiosa di arte e naturalista e la seconda professoressa di geomorfologia presso il Dipartimento di Scienze pure e Applicate dell’Università degli Studi di Urbino, che dopo dieci anni di dettagliata e minuziosa ricerca sono riuscite a rintracciare i misteriosi paesaggi che svettano sullo sfondo delle figure ritratte dei due quadri succitati.

Prima di ascoltare la spiegazione del lungo progetto delle due ricercatrici, sono intervenuti Neville Rowley, esperto di Piero della Francesca, e il semiologo Paolo Fabbri. Il primo insegna al Louvre e presto sarà nominato Conservateur pour l’art italien des XIV e XV siècles al Gemäldegalerie e al Bode Museum di Berlino. Il secondo insegna Semiotica della Marca presso l’Istituto di Comunicazione dello IULM (Istituto Universitario di Lingue Moderne) a Milano e Semiotica presso la Facoltà di Scienze Politiche della LUISS di Roma.
Neville parte dalla radicale affermazione pronunciata (anche se ancora l’attribuzione non è certa) nel 1839 da Hyppolite Delaroche la prima volta che vide un dagherrotipo, intorno agli anni ’30 dell’’800: “aujourd’hui la peinture est morte”. Un’affermazione molto forte, drastica, che profetizza la morte dell’arte in quanto, secondo il pittore francese, di lì a breve essa avrebbe ceduto il posto alla fotografia che l’avrebbe completamente soppiantata. Infatti la fotografia è capace di una captazione esatta del reale che alla pittura, per quanto possa avvicinarsi alla realtà, mancherà sempre, non potendo rappresentare in maniera perfettamente fedele la realtà allo stesso modo della fotografia. Fortunatamente le cose sono andate diversamente rispetto alla previsione di Delaroche, che di fronte a quel primo dagherrotipo che rappresentava una città urbana, sosteneva che nessun pittore avrebbe potuto catturare quei dettagli, quel gran boulevard du Temple (prima dell’intervento urbano di Huysman che trasformò radicalmente la struttura cittadina di Parigi), quelle finestre delle case, quella strada, etc. Il dagherrotipo in questione porta la “firma” di uno degli inventori della fotografia, Louis Daguerre (da qui il nome dagherrotipo) ed è significativo anche per un’altra particolarità: per la prima volta nella storia della fotografia fa capolino una presenza umana. Si tratta della minuscola figura di un uomo intento a farsi lustrare le scarpe, del tutto inconsapevole di diventare la prima persona vivente ad essere immortalata in una fotografia. L’immagine fu scattata tenendo un tempo di circa sette minuti e fu quasi un piccolo miracolo che quell’uomo avesse tenuto la posa per un abbastanza ampio lasso di tempo, mentre intorno a lui tutto scorreva veloce. Da lì in poi diversi fotografi si lanciarono in ritratti e autoritratti, come Hyppolite Bayard, che si riteneva il vero inventore della fotografia, ma la cui fama fu oscurata dal più noto Daguerre.

Negli anni seguenti però i fotografi cominciano a interessarsi maggiormente ai paesaggi, benché ritenuti più difficili in quanto fluidi, dinamici, cromaticamente cangianti a causa della variazione della luce. Per quanto la fotografia abbia apportato un notevole cambiamento circa la visione e la presa del reale, la pittura non ha smesso di incantarci o di apparire altrettanto vera. Non è infatti raro che certi paesaggi dipinti possano esser considerati come dei veri e propri paesaggi topografici. L’ “Impression du soleil levant” di Claude Monet (dipinto che ha dato il nome al movimento di cui l’artista faceva parte, l’impressionismo) è stato ad esempio oggetto di un interessante studio degli ultimi anni. Nonostante l’impressionismo (e anche il quadro in questione) rappresentino il contrario rispetto alla pittura realista, essendo una rappresentazione più intima e soggettiva del reale, reso attraverso colori e pennellate che riflettono lo stato d’animo dell’artista, uno studioso americano, grazie a dei particolari studi (soprattutto della luce) è riuscito a trovare la data, la veduta e persino l’ora esatta in cui Monet avrebbe dipinto quel paesaggio nella città de “Le Havre”, in Normandia. Secondo lo studioso, Monet avrebbe dipinto il quadro il 13 novembre del 1872 e precisamente alle 7.22 del mattino. Questo simpatico esperimento, indipendentemente dal fatto se lo studioso ci abbia azzeccato o meno, ci insegna a comprendere come anche quei quadri considerati maggiormente “immaginari”, poco veristi, catturino comunque la realtà, immobilizzandola in un momento irripetibile, unico, quasi come una fotografia. Tra l’altro non è da dimenticare quanto Monet fosse minuziosamente attento a ogni infinitesimale cambio di luce, tanto da rappresentare spesso lo stesso soggetto ma in momenti diversi della giornata.

Facciamo qualche passo indietro nel tempo. Nella cappella degli Scrovegni (detta anche “dell’Arena” o “dell’Annunciata”) di Giotto, a Padova, vediamo due finte cappelle, a sinistra e a destra dell’altare, che sono due straordinari esempi di trompe l’oeil che spalancano lo spazio: è una pittura del vuoto, quasi esistenzialista o metafisica per un occhio moderno. In realtà Giotto non ha indagato molto il paesaggio topografico, sono stati più i suoi seguaci a interessarsi a quest’ultimo. Uno di questi è Ambrogio Lorenzetti, pittore trecentesco tra i maestri della scuola senese. I suoi colli senesi, che si affacciano nei dipinti della Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena,, sono un esempio sorprendente di quasi paesaggio topografico. Si nota un ricercato e voluto effetto di corrispondenza tra il reale e il paesaggio dipinto, per quanto resti vero che i colli non siano ben riconoscibili, dato che il paesaggio è comunque molto idealizzato.

A dir la verità è molto difficile trovare il primo vero esempio di paesaggio topografico nella storia dell’arte.
Uno di questi lo si potrebbe riscontrare,cento anni dopo rispetto ai colli di Lorenzetti, in una pala del Beato Angelico, la famosa Annunciazione di Cortona, dipinta intorno al 1430 e che si trova nel Museo Diocesano dell’omonima città toscana, in provincia di Arezzo. Nella scena della visitazione (nella pala sotto l’Annunciazione) vi è un’ampia apertura di paesaggio, che a tutta prima appare sospesa in un’atmosfera sognante ma che è ben ravvicinabile alla reale veduta di Cortona che si può avere non appena usciti dal Museo Diocesano. Il paragone viene molto istintivo, anche se non si può parlare, per questo splendido dipinto, di una sorta di pre-fotografia. L’intento dell’Angelico era quello di rappresentare una storia santa introducendola in un paesaggio quotidiano, così che il fedele potesse riconoscere la terra santa in una terra di tutti i giorni.

Veniamo ai protagonisti della conferenza. Piero della Francesca e Leonardo Da Vinci. Il paesaggio che si staglia alle spalle delle due grandi figure di profilo (Montefeltro e consorte) è un paesaggio molto realistico, così come quello che campeggia alle spalle della Gioconda. Si tratta di due ritratti non due scene sacre e sicuramente vi è uno strettissimo legame, un parallelismo, tra le figure rappresentate e i paesaggi al loro sfondo.
Un altro esempio di paesaggio molto realistico lo si ritrova nel Tondo dell’Adorazione dei Magi di Domenico Veneziano, commissionato da Piero de’Medici nel 1438. Veneziano fu maestro di Piero della Francesca che lavorò con questi intorno al 1449. Secondo uno studioso dell’arte, Fiocco, nel quadro di Veneziano si intravederebbe il lago di Garda. Ciò per dire come molti paesaggi dipinti diano vita ad accurate indagini per trovare il corrispettivo reale di quegli stessi paesaggi.
Un altro quadro che Rowley prende in considerazione è una pala di Piero del Pollaiolo, fratello del più famoso Antonio. Si tratta di un’annunciazione, ubicata a Berlino dal 1800 e che presenta una fuga prospettica molto ampia. I dubbi su questa pala sono molti perché non se ne conoscono né le fonti né la committenza né l’originaria destinazione, ma il paesaggio che si vede è anch’esso molto realistico.

Uno dei quadri più interessanti dal punto di vista del paesaggio è “la madonna del cancelliere Rolin” di Jan Van Eyck, databile intorno al 1435 e sito al Museo del Louvre di Parigi. Si tratta di uno straordinario quadro fiammingo: il ritratto dell’uomo (il cancelliere Rolin) è molto fedele e il paesaggio alle spalle dei due personaggi è ricco di minuziosi dettagli. A destra compare una città moderna, gotica, mentre a sinistra una città più medievale. La catena di montagne sul fondo sembra quella delle Alpi. Van Eyck probabilmente si recò in Italia diverse volte. Il pittore, dice Rowley era come un fotografo perché nessuno a quell’epoca sapeva dipingere in maniera così realistica e ricca di dettagli. Uno studioso olandese, Hugo Van Der Velden, ha riconosciuto un paesaggio topografico,fisicamente esistente, in una miniatura sempre di Van Eyck, non però nella scena principale, bensì in quella che compare al di sotto, dove sono presenti tre chiese. Secondo lo studioso esse rispecchierebbero perfettamente un insieme di chiese che si trova a Delft, nella provincia dell’Olanda meridionale. Tutto ciò fa comprendere come la frontiera tra pittura o miniatura o fotografia non sia così netta. Non si può confinare la pittura nel solo mondo dell’immaginario, considerandola come mero frutto della mente umana e del genio artistico (per quanto sia anche questo), ed elevare la fotografia a unica arte capace di captare perfettamente il reale. Sicuramente la differenza tra le due è forte, ma la dicotomia non deve essere così stringente, dato che, come abbiamo visto, si trova un’ampia fetta di realismo anche nella pittura, prima ancora della nascita della fotografia. Così come è vero che al contempo, molte fotografie che appaiono come perfette prese o captazioni della realtà, risultano poi essere dei fotomontaggi. Dunque il confine tra ciò che è realistico e ciò che è immaginario, tanto in pittura quanto in fotografia, si fa più labile e sfumato rispetto a quanto possiamo esser portati a ritenere.

La nominata città di Delft è protagonista anche di un altro bellissimo dipinto: “La veduta di Delft” di Jan Vermeer, che sembra davvero una fotografia, tanto appare reale e fitta di particolari, grazie alla sapiente maestria dell’uso del colore e dello studio della luce da parte dell’artista olandese. Questo quadro è famoso anche per il fatto che Proust lo ha pienamente esaltato in un volume della sua monumentale Recherche, “La prigioniera”. Si tratta di un episodio molto struggente, fortemente commovente, emozionante. Lo scrittore Bergotte si reca a una mostra di quadri che lo annoia profondamente fin quando non si imbatte nel dipinto di Vermeer, “il più bel quadro del mondo”. Di fronte a quel dipinto e in particolare “al piccolo lembo di muro giallo” tutto gli appare chiaro, trasparente, cristallino. Tutto torna ad avere un senso: “Passò davanti a parecchi quadri ed ebbe l’impressione dell’aridità e inutilità di una pittura così artificiosa, che non valeva le correnti d’aria e di sole di un palazzo di Venezia o di una semplice casa in riva al mare. Alla fine, fu davanti al Vermeer, che ricordava più smagliante, più diverso da tutto quanto conoscesse, ma nel quale, grazie all’articolo del critico, notò per la prima volta dei piccoli personaggi in blu, e che la sabbia era rosa, e – infine – la preziosa materia del minuscolo lembo di muro giallo”. Più tardi Bergotte, uscito dalla msotra, si siederà su una panchina, e lì vi morirà.
Spesso, conclude Rowley, i pittori tendono a mettere nei propri quadri dei personaggi che sembrano quasi una transizione di noi stessi, e conferiscono una dimensione umana, o umanistica, ai paesaggi che dipingono.

Esempio emblematico è “il viandante sul mare di nebbia” di Caspar Friedrich, dipinto che esprime per eccellenza il sentimento del sublime di matrice kantiana. Anche qui si tratta di un paesaggio topografico: le montagne svettanti sono infatti individuabili. Il personaggio di spalle che si erge con i capelli mossi dal vento, maestoso e imponente dinnanzi all’occhio dello spettatore non funge da sola barriera tra noi e il paesaggio davanti a lui, ma diventa anche una finestra verso quel paesaggio, come fosse quasi uno specchio che ci riflette la potenza e il realismo sconvolgente di quello scenario impetuoso, di quello spazio glaciale e roccioso avvolto dai fumi di nebbia, che sembra davvero un mare pieno di scogli.

Di Chiara Del Corona e Lorenzo Palandri

“Per il tuo libero pensiero
sei imprigionato da tanto tempo.
Così tanto che il mio lamento
non riesce più a raggiungerti.
E solo odi il vento.
E solo odi il mare.”
(“Abandono”o “Il Fado di Penichei”)

Il teatro non è soltanto un momento ludico o di evasione. Il teatro ha anche il potere di far riflettere e di educare, o, meglio ancora, di sensibilizzare. Questo è l’intento di “Matite spezzate”, nato dalla penna del regista Alessandro Becherucci e messo in scena l’8 e il 9 aprile dalla Compagnia Stabile di Prosa del Teatro Nuovo Sentiero.

Martedì, 09 Febbraio 2016 00:00

Le Coefore e le Eumenidi in scena alla Pergola

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La seconda parte dell’Orestea messa in scena da Luca De Fusco e rappresentata al teatro della Pergola dal 2 al 7 febbraio, diviene un vero e proprio Kolossal. Se nell’ Agamennone l’atmosfera risultava di un’arcana freddezza, di gelido e composto mistero e piuttosto statica imperiosità (ad eccezione delle danze che inframmezzavano i dialoghi), questo secondo episodio che condensa la seconda e la terza parte della trilogia eschilea (rispettivamente Le coefore e le Eumenidi) diviene un tripudio di effetti speciali e musiche potenti, luci psichedeliche, colori che si alternano tra il bianco e l’azzurro spettrali e il rosso violento, quasi a riprodurre una sorta di inferno dantesco di ultima generazione; le danze orientaleggianti (realizzate dalla coreografa Noa Wertheim) e i movimenti delle bravissime ballerine e dei personaggi in scena, soprattutto quelli delle mostruose e stregonesche Erinni, sembrano danze macabre uscite da un film dell’orrore; a terra la tomba di Agamennone diviene una specie di specchio e sullo sfondo un pannello proietta occhi azzurri della Pizia, varchi da cui fugge Oreste che forse metaforicamente riproducono anche i labirinti della sua mente, statue, porte, e, durante il processo finale i personaggi stessi impegnati nell’accusa (le Erinni), nella difesa (Oreste e Apollo) e Atena, dea della giustizia. Quest’ultima, con un costume che sembra quasi robotico pare uscita da Metropolis di Fritz Lang o da Star Wars. Molte sono infatti le suggestioni cinematografiche che possono venire in mente: dalle inquietanti e oniriche atmosfere Linchiane – soprattutto, di nuovo, le danze demoniache delle nere erinni che ingabbiano o inseguono il povero Oresteo sconvolgendo la sua mente per cercare di farlo impazzire – al musical The Rocky Horror Picture show  passando per qualche macabro film di Tim Burton.  

L’adattamento scenografico, che porta la firma di Mario Balò, di forte impatto, risulta alle volte sensuale, sospeso in una dimensione magica, fuori dal tempo mortale, mentre altre volte, grazie alla musica e al movimento incalzanti e agli effetti speciali, diviene angosciante e misterioso, tanto che a tratti sembra trasportarci in una dimensione demoniaca e da incubo. La recitazione degli attori però, molto classica ed energica ridona alla vicenda il suo spirito tragico e la sua algida intensità. Gaia Aprea si conferma attrice a tutto tondo, transitando dalla magnifica Cassandra dell’Agamennone ad un’Atena imponente e ferrea, divinamente altera e impassibilmente giusta; Elisabetta Pozzi dona alla sua feroce Clitennestra la forza quasi arrogante di una donna che non ha alcuna vergogna di confessare i suoi delitti e i propri sentimenti di odio, ma capace di simulare un falso affetto nei confronti del figlio per persuaderlo a non ucciderla. Sorprendente poi il cambio del tono di voce dell’attrice nel momento in cui Clitennestra è un’ombra scivolata nel regno dei morti e invoca le Erinni, sue “cagne maledette”, spingendole a perseguitare il suo assassino con una voce cantilenante e acuta che sembra veramente provenire da un altro mondo; Giacinto Palmarini è un Oreste credibile, che sa passare dall’odio più violento nei confronti di chi gli ha ucciso l’amato padre (Egisto e la madre Clitennestra) e alla sete di vendetta, alle titubanze e ai sensi di colpa per il sangue della madre versato, fino all’angoscia e la fatica della fuga e la paura delle erinni persecutrici; Angela Pagano come capa di queste creature demoniache e animalesche assume le fattezze e la voce rauca propria delle streghe.

Certo, se nell’Agamennone l’intensità tragica era più raccolta, intima e quindi forse più “avvolgente”, qui l’impatto scenico risulta predominante rispetto al sentimento tragico e lo spettatore resta più rapito da musiche, danze, canti ed effetti hi-tech, sicuramente molto suggestivi, ma che rischiano di mettere in sordina la potenza della vicenda tragica e la riflessione che da essa – soprattutto dal suo esito – dovrebbe seguire.

Veniamo alla trama. L’Agamennone si concludeva con la morte del re acheo per mano della moglie Clitennestra e del suo amante Egisto. Qui troviamo Elettra (figlia di Agamennone e Clitennestra) che piange sulla tomba del padre. Con lei, le Coefore, rendono onori funebri intorno alla tomba del re ucciso. Allo scorgere di una ciocca di riccioli (che Oreste aveva posto poco prima sulla tomba del apdre) Elettra spera che il fratello, lontano da anni, sia finalmente tornato. E infatti costui arriva e promette di vendicare la violenta uccisione del padre, come l’oracolo di Apollo, suo “protettore” gli aveva fatto vedere. “Da sangue e sangue sorbiti dalla terra madre assassina cruenta, indurita, che urla vendetta. Lancinante Perdizione condanna chi ha colpa a un eterno gemmare di pene: risarcimento totale […]Ferita assassina, per assassina ferita si paghi. Colpi a chi colpì!” questo e altri simili, sono i moniti con cui Elettra e le Coefore incitano l’uomo a compiere giustizia. Il destino, ancora una volta voluto da una divinità, si compierà e Oreste si reca al palazzo dove ora regnano Egisto e Clitennestra e, fingendosi uno straniero che porta notizia della morte di Oreste riesce a farsi ospitare nella reggia, dove, di lì a poco compirà la sua sanguinosa vendetta. Il suo gesto non rimane però impunito e le “cagne” della madre che perseguitano coloro che si macchiano di delitti di sangue cominciano a perseguitare l’uomo, in preda a visioni demoniache ispiratigli da queste nere creature della notte che accerchiano la sua mente e lo inseguono forsennatamente, senza tregua né riposo. Alla fine il fuggitivo, sotto consiglio di Apollo troverà riparo presso la statua della Dea Atena. Sarà lei a dare una svolta a una vicenda in cui il sangue che chiama altro sangue non fa che dar vita a un circolo infinito di altre morti e altre vendette. Atena fonda allora il Tribunale della Giustizia, l’Areopago che da quel momento in poi si occuperà di tutti i delitti più terribili, impedendo una scia di sangue e cieca vendetta ma giudicando, grazie a una commissione composta dai cittadini migliori la colpa o l’assoluzione dell’imputato. E solennemente dichiara, che, in caso il verdetto risulti alla pari, lei darà il suo voto per la non colpevolezza di Oreste. Il processo appare sorprendentemente moderno (si pensi che la tragedia risale al 458 a.C.). Accusa e difesa si incalzano in un diverbio portando ognuno le proprie valide ragioni, così da rendere labile il discrimine tra colpevolezza e innocenza. Le erinni accusano Oreste del delitto più terribile, in quanto ha ucciso sua madre, colei che ha il suo stesso sangue, il sangue più suo scorre nelle vene del figlio. Apollo ribatte con un argomento piuttosto misogino, sostenendo che l’uccisione del padre è molto più grave di quella della madre, perché, mentre l’uomo è sempre necessario per la nascita di un figlio, molti esempi mostrano come invece non sia necessario essere partoriti dal ventre materno, primo fra tutti la nascita della stessa Atena, venuta fuori dalla mente di Zeus, senza bisogno della gestazione nel ventre di una donna. Apollo e Atena rappresentano una società profondamente patriarcale, ma ciò non toglie l’acutezza di Eschilo nel tratteggiare con attenzione le sfumature dell’universo femminile, dando spessore e sentimento alle sue eroine (sia nel bene che nel male) e rendendole personaggi a tutti gli effetti, e non semplici spalle degli uomini senza personalità né emozioni. Clitennestra spicca in tutta la sua spavalda crudeltà e spregiudicatezza e Cassandra, nell’episodio precedente, emerge per dignità,  orgogliosa forza e fiera seppur dolorosa consapevolezza del proprio destino di morte. Il processo, guidato dalla rettitudine di Atena  si conclude con la parità, ma il voto determinante della dea regala l’assoluzione al matricida. Ma il vero colpo di scena finale è la trasformazione delle Erinni in Eumenidi da parte di Atena che con un seducente discorso (aiutata, dichiara, indirettamente da Peiso, dea della persuasione), convince le Erinni a restare nel suo tempio come dee benevole (Eumenidi per l’appunto) ed eternamente venerabili dai cittadini ateniesi.

Con il capitolo conclusivo Eschilo ha voluto dare solennità e spirito immemore e immortale (è la dea della Giustizia a fondarlo) all’istituzione giuridica della propria città e a sancire finalmente il passaggio da un’età arcaica dominata da Ate, che ottenebra la mene degli uomini spingendoli alla vendetta, alla società democratica delle Poleis, in cui non vige più la legge dell’occhio per occhio-dente per dente, del sangue che chiama incessantemente altro sangue, ma quella sancita dai tribunali e da processi equi, dalla partecipazione politica dei cittadini chiamati ad esprimersi col proprio voto (segreto o per alzata di mano). Una società più matura in cui è la giustizia e non la sete di vendetta a stabilire chi è colpevole e chi è innocente. Un’Atene democratica in cui ciascun individuo non è più mera marionetta spinta dalle saette della volontà divina, ma diviene vero e proprio cittadino, chiamato a rispondere, a decidere, ad essere responsabile, per sé e per gli altri, frenando i propri odi e le proprie rivalse, i propri impeti violenti, sotto lo sguardo sempre vigile dell’Areopago, il tribunale dei delitti di sangue. Anche gli dei, pur mantenendo il loro ruolo di tessitori di destini, si fanno da parte e lasciano che la giustizia mortale divenga esclusiva prerogativa degli uomini e delle loro istituzioni cittadine; Atena, col suo gesto fondativo (e simbolico, per dare maggior importanza e solennità all’istituto di un’Atene ormai democratica) sancisce la fine di un’ età della colpa e dà inizio a un’età in cui  ogni uomo diviene responsabile delle proprie azioni e il cui operato verrà giudicato attraverso la legalità degli assetti giuridici e la partecipazione democratica, per quanto ancora molto elitaria. 

Mercoledì, 03 Febbraio 2016 00:00

L'Agamennone in scena alla Pergola

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Un Agamennone spettacolare quello che è stato portato in scena alla Pergola dal 26 al 31 gennaio, per la regia di Luca De Fusco e con le interpretazioni di Elisabetta Pozzi, Mariano Rigillo, Gaia Aprea, Claudio di Palma e Paolo Serra.

L’Agamennone è la prima parte dell’Orestea, la trilogia eschilea composta, oltre che dal suddetto Agamennone, dalle Coefore e le Eumenidi. L’Orestea è per altro l’unica trilogia arrivata a noi per intero e la rappresentazione messa in atto da De Fusco ne ha mantenuto la potenza e l’intensità.

La trama è ben nota. Dopo i 10 anni di guerra tra achei al seguito di Agamennone e troiani che si conclude con la distruzione di Troia (grazie allo stratagemma del cavallo, di cui la sacerdotessa di Apollo Cassandra, figlia di Primo ed Ecuba, aveva previsto il nefasto tranello senza però venir creduta dai suoi concittadini), il re di Micene fa ritorno ad Argo, con Cassandra, caduta nelle sue mani come bottino di guerra, dove ad aspettarlo c’è la feroce moglie Clitennestra. È lei la vera protagonista della tragedia. Un personaggio sicuramente monolitico, spietato, spregiudicato, ma con una forza che poche altre figure femminili avevano ricevuto prima. Una forza e una schiettezza paragonabili a quelle di un uomo, come dicono più volte i cittadini di Argo: “questa donna parla come un uomo”. La regina, che, verso l’inizio della tragedia, nell’apprendere la notizia (tramite un messaggio di fuoco partito dal monte Ida) della presa di Troia e del ritorno del marito, si dice pronta ad accoglierlo con tutti gli onori e ad ammettere la sua completa fedeltà, sarà poi la stessa che verso il finale, non appena compiuta la carneficina, non smentirà del tutto le parole pronunciate all’inizio, ma dirà che quelle parole erano state espresse sul momento aggiungendo: “adesso non ho alcuno scrupolo ad affermare il contrario”. Agamennone dunque torna a casa con la schiava Cassandra di fronte a una moglie imponente che lo incita a camminare su un tessuto di porpora per entrare nel palazzo. Cassandra che rimane fuori, emettendo gemiti da rondine, diviene figura chiave, perché grazie al suo dono profetico concessole dal dio Apollo (lo stesso dio che poi la punirà facendo sì che le sue profezie non vengano più credute da nessuno) riesce a vedere i fatti di sangue che hanno macchiato nel passato la casa degli atridi. Un delitto mostruoso ha inaugurato quella stirpe maledetta: Atreo, padre di Agamennone e Tieste, padre di dieci figli, tra cui Egisto, si contendono il trono di Micene. Atreo la spunta e Tieste viene bandito. Quando Atreo viene a sapere dell’adulterio consumato prima dalla moglie Erope con Tieste di cui la donna era segretamente innamorata, fa richiamare il fratello fingendo una riconciliazione, ma gli preparerà un banchetto maledetto: cucinerà i tre figli che Tieste aveva avuto da una ninfa e costui, ignaro li mangerà boccone dopo boccone. Quando Tieste scoprirà di essersi cibato della carne dei propri figli maledirà tutta la stirpe degli atridi inaugurando una scia di delitti tra consanguinei. Cassandra vede anche un'altra morte colpevole, quella di Ifigenia la giovane figlia di Agamennone, sacrificata sull’altare come un agnello innocente proprio dal padre per ottenere la vittoria in guerra. È questo, in fondo, il fatto di sangue che Clitennestra non può perdonare al marito e che significherà la sua condanna a morte. Cassandra prevede così l’uccisione del re da parte della regina del palazzo; non solo del re: quella che vede durante gli spasmi e le convulsioni provocate dal “dono” profetico sarà anche la sua di morte, accanto a colui che l’ha resa schiava e che l’ha portata nella casa di Clitennestra che non le perdonerà il fatto di esser diventata la sua concubina e amante. Cassandra sa anche però che il sangue versato sul re Agamennone e su lei stessa non sarà lavato. Vendetta chiede vendetta e sarà Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra, a vendicare il padre uccidendo a sua volta la madre.

Clitennestra, con la complicità del suo amante Egisto – desideroso di potersi finalmente vendicare del padre Tieste e punire il figlio di Atreo – uccide a colpi di spada Agamennone e Cassandra e rivendicherà senza rimpianto il suo delitto. In questo emerge l’immensità di questa figura femminile che con un orgoglio quasi arrogante si staglia davanti alle sue vittime sfoderando la spada portatrice di morte, e circondata da una luce fredda e crudele che la esalta in tutta la sua algida imponenza, la sua sconcertante lucida freddezza si arrogherà piena responsabilità del proprio gesto e rimarrà imperturbabile di fronte alle maledizioni degli argivi. Donna anticonformista in qualche modo, spietata, sì, ma in qualche modo non del tutto ingiustificabile se si riflette sulla perdita dolorosa di una figlia innocente inflittale dal marito. E soprattutto non del tutto colpevole perché ancora in Eschilo i personaggi non hanno la psicologia e il carattere più complesso dei futuri personaggi tragici di Sofocle e soprattutto di Euripide. Qui ancora sembrano pedine nelle mani di un disegno divino che li trascende del tutto, sono vittime di un destino contro cui non possono lottare né di cui possono cambiare le regole. “L’artiglio di un demone mi ha toccato il cuore” dice più o meno Clitennestra dopo la strage compiuta. La forza di queste figure però, della sua così come di quella di Cassandra che pur conoscendo ciò che le accadrà va incontro alla propria morte, consapevole che il destino previsto dagli dei non può essere cambiato e che inutile sarebbe fuggire tentando invano di evitarlo, sta proprio nel mantenere, pur in un disegno che sembra prestabilito, una sorta di libero arbitrio che li rende padroni di quel destino cui comunque in ogni caso, non possono sottrarsi. È un disegno sì costruito dagli dei ma sono gli uomini a realizzarlo, loro malgrado, e a rendersi protagonisti di quel che è stato previsto per loro e a rivendicare le proprie azioni. Non risultano così solo mere pedine in mano a qualcosa più grande di loro, ma giocatori di un gioco le cui regole comunque sono state già predisposte e i mortali non possono che seguire, più o meno inconsapevolmente, queste regole, ma sono anche essi stessi a deciderle. È una sorta di libera predeterminazione. La libertà consiste nel scegliere quello che sarà il proprio destino, già comunque stabilito dagli dei. Clitennestra sceglie di uccidere Agamennone, anche se la sua è una scelta voluta dagli dei, ma questo non toglie la responsabilità umana del suo gesto. E in questo caso la colpa della regina è colpa a tutti gli effetti, è aitia e non amartia che letteralmente significa mancare il bersaglio e che è la colpa di chi non ha colpe, la colpa dell’ignoranza, come quella di Edipo che inconsapevolmente ucciderà il proprio padre (perché non sa che si tratta del padre) e si macchierà di incesto, perché non sa che colei con cui dividerà il letto è la propria madre, Giocasta. La colpa di Clitennestra è invece una colpa di cui lei decide di macchiarsi, lei compie consapevolmente il suo gesto di sangue e lo rivendica quasi vantandosene. Lei sceglie il suo destino, Edipo invece vi si imbatte incoscientemente, come un cieco che cammina a tentoni nel buio e che come per un contrappasso dantesco, proprio per non aver saputo vedere i delitti di cui inconsapevolmente si macchiava, si auto provocherà la cecità.

L’Agamennone si conclude con l’uccisione del re e di Cassandra e la rivendicazione del gesto da parte dei due assassini e amanti, Clitennestra ed Egisto, mentre la vendetta di Oreste, il suo inseguimento da parte delle Erinni e infine la loro trasformazione in Eumenidi – dee della giustizia – durante il processo finale che vedrà Oreste giudicato nell’Areopago si consumeranno nelle altre parti della trilogia. Proprio le Eumenidi, fase conclusiva dell’Orestea segnano simbolicamente il passaggio da una sorta di legge del taglione, fondata sulla vendetta (occhio per occhio dente per dente) alla giustizia democratica del nuovo assetto delle polis e l’esaltazione dell’Atene democratica, in cui il colpevole non deve più essere vendicato ma sottoposto a giusto processo nella sede del tribunale dei delitti di sangue (l’Areopago appunto) e giudicato attraverso una votazione democratica, sotto l’egida della dea della giustizia Atena, che poi sancirà anche il verdetto finale.

La messa in scena de L’Agamennone di De Fusco è carica di atmosfera suggestiva e inquietante. Effetti speciali e intermezzi con danze di sinuose ballerine e musica potente, rendono pienamente la tensione e l’intensità tragica della storia e dei personaggi, creando un sentimento di angoscia e turbamento nell’animo degli spettatori, e riuscendo a rendere piuttosto labile il confine tra vittime e carnefici così come a prendere atto che tutti o nessuno siano in fondo dei colpevoli. Certo, la figura indomita e feroce di Clitennestra lascia poco spazio a un’immedesimazione empatica, ma in fondo perfino per lei si può provare pietà e ammirazione, per la sua forza di donna che vuole essere considerata pari ad un uomo, per il suo non nascondersi dietro quel gesto sanguinoso che decreterà la sua condanna a morte; per il non piegarsi di fronte a niente e nessuno, risultando figura di spessore e protagonista di una tragedia che pur non porta il suo nome. L’interpretazione di Elisabetta Pozzi è intensa ma rischia di essere scavalcata da un’altra figura femminile che dal momento in cui apre bocca ruba la scena a tutti: La Cassandra di Gaia Aprea è sublime, nel senso filosofico del termine. Passa dalla purezza e innocenza di giovane fanciulla sventurata, vittima di “dono”più grande di lei, alla versione quasi stregonesca e macabra di una Cassandra che con voce gracchiante, rauca e cavernosa (totalmente contrapposta alla voce limpida e cristallina nei momenti di lucidità) viene posseduta dalla profezia che le procura spasimi e convulsioni; per poi tornare invece infine a cantare con voce di usignolo mentre si incammina incontro al suo destino di morte. La sacerdotessa di Apollo è l’unica figura che esce completamente immacolata, è la vera vittima di una storia di cui sa non essere i mortali a tesserne i fili e con fierezza e orgoglioso coraggio non si piega ma si erge a testa alta di fronte alla sorte che le hanno decretato gli dei.

La scenografia abbastanza sobria, ma in qualche modo magica, grazie ad alcuni colpi di scena, e le luci cupe, a parte quelle che circondano, come un’aureola di luce nefasta anziché angelica, la figura di Clitennestra, diventano lo spazio perfetto per un crescendo di tensione drammatica e lo sfondo tetro che fin dai primi dialoghi presagisce il determinarsi di lugubri eventi, di cui i primi personaggi in scena si faranno testimoni impotenti.

Giovedì, 24 Dicembre 2015 00:00

Toulouse Lautrec – Luci ed ombre di Montmatre

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Questo Tolouse Lautrec è proprio uno svergognato; egli rifiuta ogni genere di abbellimento sia nel disegno che nei colori. Bianco, nero, rosso a grandi macchie e forme semplici, é questo il suo stile. Non ce n'è un altro che come lui sia capace di riprodurre in modo così perfetto i volti dei capitalisti rimbecilliti, che si siedono ai tavoli in compagnia di puttanelle che li accarezzano per eccitarli. Come avrebbe potuto, essendo feroce con se stesso, non esserlo con gli altri! Nella sua opera non si trova un solo viso umano di cui non abbia volutamente sottolineato il lato spiacevole. […] Era un osservatore implacabile ma il suo pennello non mentiva.
Félix Fénéon

Non capita tutti i giorni di potersi immergere a pieno nella Parigi di fine Ottocento. Una città elettrizzante, la capitale culturale d'Europa, in cui vengono gettate le basi per le sfide per le rivoluzioni del Novecento. La ghiotta occasione viene fornita dalla mostra Toulouse Lautrec – Luci ed ombre di Montmatre, esposta a Palazzo Blu a Pisa fino al 14 febbraio 2016.

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