Mercoledì, 16 Aprile 2014 00:00

Con Barghouti per una Palestina libera

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I manifesti che raffigurano assieme Marwan Barghouti e Nelson Mandela si vedono sempre più frequentemente a giro. Le grandi affinità tra i due uomini, le tante somiglianze, fanno veramente sperare che questa volta possa essere possibile. Possibile creare una consapevolezza comune su quello che accade in Palestina da decenni, su quelle che sono le condizioni delle migliaia di prigionieri politici rinchiusi illegalmente nelle carceri israeliane. E sarà possibile grazie all'immane lavoro di tutti coloro che si sono impegnati nella campagna internazionale per la liberazione di Marwan Barghouti e dei prigionieri politici palestinesi (clicca qui per più informazioni e qui per un nostro articolo a proposito).

È proprio nell'ambito di questa campagna che lunedì 14 aprile la Sala Luca Giordano di Palazzo Medici Riccardi, sede, ancora per poco, della Provincia di Firenze, ha ospitato un'iniziativa che potremmo, banalmente, definire bellissima. Sedute attorno ad un tavolo tre donne simbolo della lotta della Palestina per la sua libertà: Fadwa Barghouti, avvocatessa e moglie del leader politico imprigionato da 17 anni nella cella 28 della prigione di Hadarim, Mai Alkaila, ex prigioniera politica nelle carceri israeliane e oggi ambasciatrice palestinese in Italia e Luisa Morgantini, nome conosciuto da chiunque condivida e si appassioni alla causa palestinese.

Ciò che colpisce è il senso di comunità che hanno oramai sviluppato coloro che vivono in Palestina e subiscono quotidianamente le angherie da parte di Israele. Come ci ha raccontato Fadwa, Marwan ha 54 anni ed ha passato gran vissuto tutta la sua vita nella sua terra, girando i villaggi, aiutando i più deboli e cercando di creare un senso di consapevolezza che si basasse sul sentirsi parte di un qualcosa di molto più grande dell'io, del sentirsi parte di un popolo antico che da anni non ha più diritti. Per questo motivo quando, partendo dalla dichiarazione firmata a Robben Island da Ahmed Kathradi, attivista che ha dato il via alla campana che ha portato alla liberazione di Nelson Mandela, è stato annunciato a Barghouti che ci si sarebbe mossi a livello internazionale per richiedere la sua liberazione, lui ha detto che avrebbe accettato solo se questa avesse portato avanti la causa di tutti i prigionieri palestinesi.

Il problema è purtroppo, infatti, molto più che consistente. È stato stimato che dal 1967 in media il 25% di ogni famiglia è stato incarcerato: questo significa che su una famiglia di 4 persone, almeno una è stata arrestata. Al momento attuale i palestinesi detenuti come prigionieri politici nelle carceri di Israele sono 5224. Molti di questi, provenienti da Gaza e dalla Cisgiordania, non possono ricevere visite per motivi di sicurezza e passano anni senza poter vedere i familiari, subendo soprusi e torture di ogni tipo. Dal 2000, oltre 10.000 ragazzi sono passati per quelle carceri, 6.000 sono stati feriti (molti di questi sono rimasti segnati a vita da disabilità di vario tipo) ed oltre un migliaio sono stati uccisi dall'esercito o dai coloni.
A questo va aggiunta la meschinità dell'esercito e del governo israeliani che approfittano della condizioni dei ragazzi per insinuarsi, ottenere informazioni e creare spie, come racconta Omar, l'ultimo coraggioso film che ha portato al regista palestinese Hamy Abu-Assad la candidatura agli Oscar come Miglior film straniero. Capita di frequente che in mezzo alla notte le autorità israeliane facciano irruzione nelle case palestinesi e portino via qualche ragazzo. Questo viene condotto in carcere ed interrogato (e magari torturato) per ore fino a quando non confessa cose non vere o firma dichiarazioni false. I ragazzi che crescono nei villaggi palestinesi sanno fin da piccoli come comportarsi in caso di arresto. Ma anche coloro che non resistono alla pressione e alla tortura, non vengono emarginati. Quando tornano al villaggio, la comunità li accoglie sapendo che quel ragazzo altro non è che una vittima e che va dunque aiutato a sorpassare il momento.

È infatti proprio la comunità palestinese in quanto tale che spaventa Israele: il fatto che Marwan Barghouti parli di “patria” alludendo all'insieme di persone, tradizioni, sentimenti e territori che appartengono al popolo palestinese. E Israele prova a scalfire questa unità con i mezzi più disparati: imprigionando i leader politici e i punti di riferimento delle comunità, tentando di utilizzare le differenze religiose per creare frazioni, introducendo spie e costringendo i ragazzi a confessare colpe inesistenti. Il popolo palestinese è consapevole del fatto che la sua forza consiste nell'unità. E assieme al popolo palestinese lo è anche Marwan Barghouti, che nel 1993, pur non condividendo a pieno la linea tenuta dal leader della sua organizzazione, Al Fatah, agli accordi di Olso, continuò a girare per i villaggi, pur avendo preso parte alla prima Intifada. Affermava che fosse necessario uno sforzo e che tutti i palestinesi dovessero dare veramente una possibilità alla pace, cercando di lavorare per gli accordi.

È quindi, anche qui, l'unità la chiave di volta per riuscire ad ottenere la libertà per il popolo palestinese. Unità nel riconoscere che l'occupazione territoriale e l'espansione della colonie sono, assieme alla detenzione illegale di prigionieri politici, i soprusi che separano dalla pace. Ma, allo stesso tempo, anche unità nel richiedere e lavorare intensamente al raggiungimento di questa.

Ultima modifica il Martedì, 15 Aprile 2014 12:30
Diletta Gasparo

"E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa"

Cit.

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