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Estetica dei ricordi annebbiati: documentario sugli Slowdive
Recensione del documentario sull’influente gruppo inglese
C’è stata una breve ma intensa stagione musicale nel Regno Unito, schiacciata fra i fasti della new wave degli anni ottanta e la patina del brit-pop della decade successiva, a lungo rimasta piuttosto nell’ombra ma che nel tempo è stata profondamente recuperata e rivalutata: si tratta del movimento shoegaze, un genere interessato a mescolare il candore etereo del dream pop con il rumorismo riverberato della psichedelia.
Una delle più importanti magazine musicali, Pitchfork, ha da poco realizzato un interessante documentario (disponibile qua) lungo poco meno di un’ora su uno dei protagonisti di questa oscura ma eccitante scena musicale, ovvero gli Slowdive, formati a Reading nel 1989 dall’incontro artistico e sentimentale fra Rachel Goswell e Neil Halstead.
Un montaggio eccellente, unito alle lunghe interviste originali ai membri della band, al loro produttore e all’ingegnere del suono, contribuiscono a definire un documentario pregevole che rende giustizia a una delle più sottovalutate band inglesi degli anni novanta, a lungo assurdamente marginalizzata anche dalla critica alternativa della terra d’Albione.
Thee Oh Sees: Il ritorno dei filologi del garage rock lisergico
Recensione dell’ultimo lavoro “Mutilator Defeated at Last”
Alla fine si ritorna sempre là. Alla seconda metà degli anni sessanta e a ciò che quegli anni hanno significato per la storia della musica. Si ritorna a un periodo in cui la controcultura aveva per un breve periodo trasformato il rock nella più credibile espressione del malcontento generazionale e del desiderio di trasformazione radicale.
Sappiamo tutti come andò a finire: la rivoluzione verrà ricondotta all’interno dei sicuri binari dell’establishment, la contestazione messa a tacere, la controcultura ridotta a una moda passeggera. Eppure si fa fatica a trovare ancora oggi un musicista che non sia stato direttamente o indirettamente influenzato da quanto è stato scritto e cantato durante quegli anni di fibrillazione e di eccitante creatività. C’è chi poi di quel periodo ne fa un vero e proprio culto.
È la stessa produzione che calca le scene ormai da qualche anno quella della "Lucia di Lammermoor" in programma al Teatro alla Scala nelle prossime settimane, sebbene ampiamente “ricostruita” per l’occasione dalle maestranze scaligere. Una regia piuttosto tradizionale, made in USA, della nota Mary Zimmerman.
L’allestimento, di facile consenso per il grande pubblico, può suscitare senza dubbio qualche perplessità tra gli appassionati del genere, ma ha il pregio di non disturbare con stravaganze e velleità un’opera tanto raffinata e melodrammatica.
Cronache dal Sottosuolo: L’Italian Occult Psichedelia
Su “Nostra Signora delle Tenebre”, la neopsichedelia italiana omaggia il cinema del brivido e le sue colonne sonore
Si è sempre un po’ scettici di fronte a quei lavori volti a inquadrare un’intera scena o movimento musicale. Spesso questi progetti finiscono per dare una idea stereotipata, didascalica, semplicistica o eccessivamente (auto)celebrativa della ricchezza artistica che contraddistingue un particolare contesto musicale. Ma ci sono anche grandi eccezioni, come la storica “No New York” assemblata da Brian Eno, uno spaccato fondamentale della radicale e nichilista scena No Wave newyorkese o le ”Nuggets”, serie di album che raccoglievano il meglio dell’underground garage degli anni sessanta.
Nel suo piccolo, anche “Nostra Signora delle Tenebre” è un esempio di un lavoro che riesce nell’intento di fotografare in maniera precisa e puntuale un movimento intero, restituendone la forza espressiva e la sua ragion d’essere. Il genere in questione, la cosiddetta Italian Occult Psychedelia, è fra i più interessanti emersi dall’underground nostrano negli ultimi anni.
Il disco si presenta sotto le sembianze di un tributo al cinema horror e giallo e alla sue musiche. Non si tratta dunque di un assemblaggio di composizioni estratte dagli album di ciascuno degli artisti presenti in scaletta, ma piuttosto di una serie di rivisitazioni di alcuni pezzi di grandi compositori di colonne sonore quali Ennio Morricone, Nico Fidenco, Stelvio Cipriani Nino Rota, ed Egisto Macchi.
Ne emerge una costellazione di musicisti amanti dell’occulto e del claustrofobico come del trascendente e dell’onirico che stanno rivitalizzando la musica indipendente italiana e che in molti casi stanno avendo anche una discreta affermazione internazionale. Emergono, insomma, i tratti salienti di un movimento all’apice della sua forma e al culmine della sua creatività.
Su queste stesse pagine, è stato a più riprese affermato come la musica popolare sia in una (ennesima) fase di grande rivisitazione degli anni sessanta psichedelici, filtrati tramite nuove sensibilità e un’impostazione prevalentemente “indie”. L’Italia, pur col suo consueto ritardo, non è da meno in questo processo di riscoperta. Rispetto all’Inghilterra dove imperversa un pop psichedelico piacevole ma accessibile (Tame Impala, Temples), la peculiarità italiana sta nel l’oscurità e nello sperimentalismo che contraddistingue buona parte dei protagonisti del movimento. Movimento che, avanguardista e sotterraneo, sebbene abbia dato vita a molte collaborazioni, non presenta comunque quella omogeneità stilistica né quella vicinanza geografica da poter permettere di poter parlare di una vera e propria “scuola”.
Fra gli artisti presenti nella raccolta si possono infatti rintracciare approcci diversi alla materia psichedelica: c’è, chi fa maggior riferimento all’esperienza più vicina alla world music e al kraut rock che fu, con composizioni aperte e oniriche, eteree e allucinate, chi poi guarda con maggiore convinzione ai classici della psichedelica degli anni sessanta mentre altri ancora preferiscono esplorare piuttosto il lato claustrofobico e opprimente, viscerale e rumorista dell’acid rock.
Fra i più apprezzati internazionalmente, si distinguono i Lay Llamas che producono per la mitica Rocket Recordings (che ha in squadra pezzi da novanta come Oneida e Goat), uno delle case discografiche più importanti al mondo in ambito psichedelico. La loro rivisitazione di “Palude”, seconda composizione in scaletta, è una spasmodica danza collettiva, un adrenalinico ed effervescente rituale pagano in onore del dio sole. Altrettanto rinomati fuori dai confini nazionali, gli Heroin in Tahiti (il nome è tutto un programma) presentano una calda e avvolgente “Nuda per Satana” su riff di abbagliante sensualità e ipnotica visionarietà. Al fervore mistico quartomondista si abbandonano però anche i Mamuthones, progetto parallelo di Marco Fasolo (Jennifer Gentle), che crea variegati paesaggi lisergici in cui l’horror vacui si esprime in tutto il suo angosciante turbamento e l’enigmatico e talentuoso Gianni Giublena Rosacroce che presenta qua un “incubo sulla città contaminata”, maestoso trip lisergico che vive di un’impalpabile inquietudine senza fine. Compagni di etichetta di quest’ultimo (la Yerevan Tapes, una delle protagoniste assolute nel dare visibilità al movimento tutto) sono i Cannibal Movie, autori di impressionanti cavalcate allucinogene e di dirompenti fiumi sonori in area post e kraut rock. Sullo sfondo, i nomi tutelari di Ash Ra Tempel e Popul Vuh ma anche i contemporanei Sun Araw, Peaking lights e Goat sono influenze marcate per questi artisti.
Il versante più nichilista e cupo del movimento, esprime invece il suo spirito lisergico tramite un approccio più marcatamente rumoristico. I Mai mai mai sono il prototipo della psichedelia che invece che guardare in alto, verso il cielo, fissa lo sguardo a terra e prova a penetrare il sottosuolo. Anch’essi prodotti dalla Yerevan Records, si presentano qua con una spigolosissima interpretazione di “sette note in nero” sintomatica della loro esigenza comunicativa: perturbanti increspature industriali, oscuri battiti notturni per un opprimente suono dell’oltretomba. Non sono da meno i Father Murphy (“l’alba dei morti viventi”) in cui la mistica occulta si trasforma in un disagio ansiogeno quasi fisico, né gli OvO, impeccabili architetti sonori del vuoto e dell’abisso.
Forme meno estreme ma comunque alternative di neopsichedelia vengono poi da due dei protagonisti più celebri del movimento, Edible Woman (ottimi i loro intrecci di strumentazioni tradizionali e sintetiche) e Jennifer Gentle, in tour coi Verdena, qua nella veste taciturna e riflessiva della sensuale ninnananna Chanson de la nuit.
Second H Sam, Lamusa, Maria Celeste, Slumberwood e Beautiful Bunker arricchiscono un progetto ben riuscito e che immortala un movimento sotterraneo che merita di essere portato alla luce.
Era il 2007 quando Stéphane Lissner, Sovrintendente del Teatro alla Scala, commissionò al compositore Giorgio Battistelli un’opera per l’occasione dell’Esposizione Universale. Un lavoro teatrale e musicale che riguardasse il tema di Expo 2015, “nutrire il pianeta - energia per la vita”, e che fosse nuovo, moderno, attuale.
I lavori di scrittura del libretto e degli spartiti furono travagliati fin dall’inizio, con tensioni tra compositore, librettista e i registi che si sono susseguiti nel ruolo. Quando infine si approdò alla scelta di Robert Carsen alla regia e il libretto era completato, mancavano ancora numerose pagine di partitura. Il Teatro alla Scala, nel frattempo, scelse di inaugurare l’Expo con la Turandot di Puccini, diretta da Chailly, e il finale inedito di Luciano Berio.
Il maestro Battistelli ha lavorato all’orchestrazione di "CO2", titolo che riprende la formula chimica dell’anidride carbonica, fino agli ultimissimi giorni di prova, a qualche giorno di distanza dalla prima esecuzione, riducendo, allargando, tagliando e riscrivendo numerosi fogli. Il prodotto scaturito da una gestazione tanto lunga è senza dubbio, e non poteva non esserlo, di notevole qualità e pregio artistico.
Una Turandot che farà storia quella diretta da Chailly, col finale di Luciano Berio, in scena al Teatro alla Scala per l'apertura di Expo. Un Puccini insolito, nuovissimo, rivisitato, che sfonda i confini del melodramma italiano e dirompe nell’espressionismo musicale, nella politonalità che strizza l’occhio alla dodecafonia.
Non è forse un allestimento eccezionale, ed è presumibile che il giudizio complessivo della critica non sarà granché positivo, ma senza dubbio lascerà il segno nella filologia pucciniana e nell’esecuzione del Puccini maturo il lavoro di ricerca intima, misura per misura, che Riccardo Chailly ha operato sulla partitura della Turandot dalla prima all’ultima nota, fino a congiungerla con il recentissimo spartito conclusivo di Berio.
Lo spettacolo è la riedizione aggiornata di quello che andò in scena ad Amsterdam nel 2002, con la regia di Nikolaus Lehnhoff, cui sovrintese lo stesso Berio, scomparso soltanto l’anno successivo.
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