Tutto ciò che è sociale ma non riflessione sociologica, legandosi a quello che compone la realtà in cui viviamo.
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Premettendo che il tema delle unioni civili mi sta particolarmente a cuore, cercherò di non cadere in discorsi un po’retorici e mi verrebbe facile lanciarmi in argomentazioni più dettati dal cuore e dalla pancia che però poco servirebbero a capire certi punti che a me sembrano ovvi.
Già al lancio del comunque tiepido Ddl Cirinnà bis sé esplosa la frattura, sia in parlamento che tra gli italiani.
Davvero io non riesco a capire la paura che un testo di legge simile, per altro neanche troppo coraggioso, rispetto ormai ai passi in avanti che quasi tutti i paesi occidentali hanno compiuto nei confronti delle coppie omosessuali, susciti ancora tra molte persone. Il punto maggiormente critico è la cosiddetta stepchild adoption, ovvero l’estensione della responsabilità genitoriale sul figlio biologico di uno dei due partner. Quello che più mi urta i nervi è la propaganda ingannevole e fuorviante, che si è creata su questo punto, considerato particolarmente spinoso e che svia fortemente dalla realtà che esso sancirebbe e prevedrebbe.
La Sicilia e i suoi antichi ospiti
Riemerge dopo 2500 anni fa un “fossile” guida
La notizia è fresca e per certi versi rappresenta una sorta di “bomba” storico-naturalistica. Pochi giorni orsono, un team di specialisti e zoologi siciliani nei pressi della Foce del fiume Salso sfociante a Licata ha osservato degli ospiti molto particolari. Sono stati individuati sei esemplari, di cui tre vivi, dell’unica specie di Boa presente in Italia, il cosiddetto Boa delle sabbie o serpente proiettile. Gli esemplari sono stati attentamente studiati e il loro identikit, che verrà presto arricchito dall’analisi del Dna, è stato pubblicato sulla rivista Acta Herpetologica da Gianni Insacco, direttore scientifico del Museo di Storia Naturale di Comiso, in collaborazione con Filippo Spadola, dell’Università di veterinaria di Messina, Salvatore Russotto e Dino Scaravelli, dell’Università di Bologna.
Carpe ministeriali ed aeroporti prolungati: cosa c’è di sbagliato nella gestione ambientale in Italia
Immaginiamo un mondo in cui per costruire un ponte ci si rivolge ad un ingegnere, ma se il progetto non ci piace lo cambiamo a nostra discrezione, per poi renderlo operativo; oppure, facciamo preparare le planimetrie per un nuovo palazzo ad un architetto, ma poi ci riserviamo di modificarle a seconda di come ci convince. Se l’ingegnere o l’architetto ci tentano di avvisare che il progetto come l’abbiamo modificato ha dei problemi strutturali o statici, che rischia di venire giù non appena apriamo il portone del palazzo o facciamo passare un motorino sul ponte, noi non solo non li ascoltiamo, ma li accusiamo di essere stati pagati (non si sa bene da chi, ma pagati di certo) per dare previsioni catastrofiste, di essere incompetenti, e in definitiva, che la loro formazione rappresenta un’inutile spesa di denaro pubblico – che magari andrebbe meglio investito, magari nei saperi tradizionali: in fondo l’essere umano costruisce ponti e case da ben prima che ci fossero le facoltà di ingegneria ed architettura, il che dimostra che le dette facoltà sono inutili. Uno scenario del genere appare raccapricciante a chiunque; eppure, se sostituiamo a “ingegnere” e “architetto” le qualifiche professionali ed accademiche di “biologo” e “naturalista”, e invece che di costruzione di case e ponti parliamo di gestione del patrimonio naturalistico, questa situazione è tristemente ricorrente. Quel che è peggio, è che non sono solo le associazioni di fruitori, a vario titolo, dell’ambiente naturale a scavalcare i periti in caso la perizia dia un esito non favorevole alle richieste o ai desiderata dei fruitori. Ma procediamo con ordine.
Si è già parlato, in precedenti articoli, della gestione dei grandi carnivori e dei grandi ungulati sul territorio italiano, e del difficile equilibrio tra diversi portatori d’interesse. Un contesto apparentemente meno problematico è quello della gestione delle acque interne italiane, che come è noto, non godono di una salute particolarmente buona. Questo è dovuto in parte alla regimentazione dei corpi idrici, e all’inquinamento, ma un problema di non poco conto è rappresentato dall’introduzione di un gran numero di specie alloctone, che competono con l’ittiofauna autoctona o, in molti casi, addirittura vi si ibridano. Gran parte dell’ittiofauna autoctona dell’Italia ne è anche endemica, non si trova, cioè, da nessun’altra parte; questo è dovuto a complessi fenomeni geologici avvenuti tra il Miocene e il Pliocene, a seguito dei quali le specie tipiche dell’Europa centrale si sono trovate isolate nella Penisola Italiana ed hanno avuto un’evoluzione indipendente – e spesso diversificata tra i versanti adriatico e tirrenico. I ripopolamenti effettuati con materiale dell’Europa centrale, anche con l’obiettivo di avere pesci più grandi e combattivi, hanno portato alla rarefazione e in alcuni casi scomparsa dei ceppi originari della Penisola Italiana. In questa situazione si inserisce la gestione delle acque interne italiane, che in un’ottica naturalistica dovrebbe favorire le aree in cui sopravvive l’ittiofauna originaria, e cercare di contenere e, ove possibile, eradicare, la fauna alloctona.
Tra i temi più problematici in questo periodo, la diffusione del siluro e del persico trota, due grossi predatori generalisti, e il ripopolamento con ceppi mitteleuropei di cavedano, barbo e soprattutto luccio; il luccio italiano è stato descritto come specie distinta solo nel 2011, e i ripopolamenti negli anni precedenti non hanno tenuto conto della provenienza dei pesci reintrodotti; ad oggi si teme che gran parte delle popolazioni di luccio in Italia siano costituite da ibridi tra lucci italiani e lucci mitteleuropei. In nessuno di questi casi sono in atto programmi di eradicazione (se non a livello locale, e con dubbi risultati). A maggior ragione non è prevista la proposta di programmi di eradicazione per la carpa, una specie ubiquitaria in tutta la penisola e presente anche nelle principali isole italiane, alloctona e con un forte impatto sugli ambienti acquatici, ma introdotta da abbastanza tempo per rendere virtualmente inattuabile la sua eradicazione; questo sia perché le alterazioni determinate da questa specie sugli ambienti italiani sono ormai troppo profonde per essere recuperabili, sia perché si tratta di una specie estremamente prolifica. Nonostante questo, la FIPSAS (Federazione Italiana Pesca Sportiva e Attività Subacquee) sta tentando di ottenere dal Ministero dell’Ambiente una certificazione di autoctonia per la carpa – rifacendosi in parte ad una proposta, ad oggi non accolta dal Ministero, di listare come “para-autoctone”, ed equiparare ad autoctone ai fini della tutela e della gestione, le specie la cui presenza sul territorio italiano è precedente al 1500. Il significato che questa certificazione dovrebbe avere è poco chiaro; sicuramente, con la legge vigente, lo status di specie alloctona della carpa impedisce che si proceda a ripopolamenti e reintroduzioni, ma d’altra parte, in relazione alla sua biologia questa specie non necessita affatto di questo tipo di misure gestionali, né corre rischi di rarefazione in nessuna parte d’Italia. In quanto allo status di para-autoctono, anche volendo accettare questo tipo di definizione (di significato biologico questionabile per non dire nullo), resta il fatto che l’attribuzione agli antichi Romani dell’introduzione di questa specie in Italia non sembra molto più che una leggenda metropolitana, e che le fonti storiche sono concordi nell’individuare la naturalizzazione della carpa in un periodo successivo (anche se non di molto) al 1500. Resta ad ogni modo il fatto che anche le specie alloctone, come il persico trota, il luccio mitteleuropeo e la carpa stessa, sono tutelate da leggi che regolano le taglie minime, la quantità prelevabile, le zone di tutela e i periodi di ferma, e conseguentemente, questo spostamento dalla lista degli alloctoni a quella degli autoctoni non avrebbe alcuna conseguenza pratica.
Il problema, tuttavia, è un altro, ed è il tentativo di confutare un risultato scientifico che non ci piace non attraverso prove contrarie ad esso, ma attraverso un decreto ministeriale. Se il tentativo di far considerare per legge autoctona la carpa ci fa un po’ sorridere, e in fondo non sembra ricadere tra i grandi mali del mondo, pensiamo a cosa significherebbe far passare una legge che per risparmiare imponga di dimezzare il carburante necessario per tenere in volo un aeroplano su una determinata tratta, nonostante gli studi scientifici affermino che sarebbe troppo poco. Nel caso della carpa, le conseguenze potranno apparire meno disastrose, ma concettualmente il processo è identico.
D’altra parte questa storia non può stupirci troppo, non alla luce di un accadimento decisamente recente. Piccolo antefatto (che non è inopportuno ribadire): per qualsiasi opera edilizia è necessaria una Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA), in base alla quale le autorità competenti decideranno se dare, o no, l’autorizzazione all’opera in questione. Per la costruzione della controversa nuova pista dell’aeroporto di Peretola la VIA ha avuto esito negativo; la reazione a questo non è stata una ricalibrazione del progetto tenendo in considerazione le criticità individuate dalla VIA, ma il tentativo di individuare una scorciatoia che togliesse l’odiato ostacolo di mezzo: il ricorso alle alte sfere. E le alte sfere hanno puntualmente e congruamente risposto, inserendo nella Legge di Stabilità per il 2016 un emendamento che cancella l’obbligo di VIA per il prolungamento della pista dell’aeroporto di Firenze. Emendamento che, grazie ad una tempestiva levata di scudi da più parti, è stato rigettato; ma il fatto che sia stato presentato come se si trattasse di una cosa normale – avallando di fatto l’idea che per legge si possano ricusare le conclusioni di uno studio scientifico – fa suonare dei campanelli d’allarme. Concettualmente non è così differente da quanto la FIPSAS sta chiedendo al Ministero dell’Ambiente; ma il fatto che questo tipo di soluzione sia stato prospettato dal governo stesso è estremamente inquietante.
Il messaggio che emerge a livello istituzionale – non solo più privato o associazionistico – è appunto questo: il perito in gestione ambientale può essere scavalcato nel momento in cui la sua perizia risulta scomoda per i portatori d’interesse. Mentre l’applicazione di questo principio da parte delle istituzioni è un problema politico, la condivisione che trova ci costringe a considerarlo un problema culturale. Di fatto, la necessità di figure specializzate nella gestione del territorio è sempre meno condivisa; su questa linea il costante tentativo di by-passare le perizie e le valutazioni d’impatto, a tutti i livelli, su questa linea l’idea (assolutamente non fondata) che il fruitore abbia tutte le competenze per gestire personalmente la risorsa naturale, su questa linea la forte riduzione del ruolo (e la possibile eliminazione) del Corpo Forestale dello Stato, come anche la stretta anche economica sulle agenzie ambientali. Spesso ad opera, peraltro, di chi si vanta del patrimonio naturalistico dell’Italia.
Quel medesimo patrimonio naturalistico siamo arrivati molto vicini a perderlo con l’industrializzazione e la cementificazione indiscriminate – e se non è successo, è anche grazie a fenomeni strutturali, ma non contemplati, come lo spopolamento delle aree di montagna. Il recupero e la valorizzazione delle risorse naturali e del patrimonio naturalistico non sono avvenute in maniera automatica, ma grazie all’impegno lento e costante di un gran numero di periti, che hanno investito nella conservazione di specie d’interesse naturalistico, ma anche degli habitat che esse popolano. Senza di loro non ci sarebbe stato nulla di cui essere orgogliosi; e senza di loro, non possiamo sperare in alcuna maniera di mantenerlo.
Di Luca Reggiani dal numero cartaceo di settembre
Niti e Nyaya possibili strumenti di lettura della crisi europea?
La crisi economica, acuitasi negli ultimi mesi, che ha colpito la Grecia - portando con sé momenti di tensione politica e sociale - ha riportato al centro del discorso pubblico la natura stessa dell'Unione Europea. Da molte parti si sono levati i cori di europeisti (convinti della necessità di un’Europa unita) e di anti-europeisti, (convinti che l’Unione sia la causa di tutti i mali). Anche molti economisti hanno preso, in maggiore o minore misura, posizione.
Ha una sua utilità, ai fini del dibattito su tema dell'Unione Europa e su quella che viene definita teoria della giustizia, anche la riflessione di un economista - europeo per cittadinanza ma non per origine - premio Nobel nel 1998: l'anglo-indiano Amartya K. Sen.
In un antico poema epico indiano in sanscrito, la Mahabharata, in particolare nella parte chiamata Gita, va in scena un importante scambio di opinioni fra due personaggi, Arjuna e Krishna. Arjuna è il glorioso e invitto guerriero dalla parte dei giusti, Krishna è l’auriga di Arjuna, ma è anche ritenuto un’incarnazione, in forma umana, divina.
In questo scambio di battute, che si svolge alla vigilia di uno scontro fondamentale per il risultato di una guerra in corso, Arjuna esprime le proprie perplessità sul fatto che prendere parte alla battaglia sia per lui la cosa giusta da fare. Il guerriero, che non ha dubbi sulla bontà della causa né che si tratti di una guerra giusta e che alla fine la sua fazione, grazie soprattutto alla sua forza, trionferà, ma quella battaglia sarà una carneficina e molti di quelli che perderanno la vita non hanno commesso nulla di male ma solo deciso di appoggiare l’altra fazione. Arjuna è quindi angosciato sia dalla consapevolezza della tragedia che si abbatterà su quelle terre, sia dalla responsabilità che egli assumerà uccidendo altri uomini, incluse persone a lui legate e per molte delle quali prova affetto.
Arjuna giunge ad affermare che, forse, sarebbe meglio non combattere e lasciare il regno agli usurpatori. Krishna si oppone violentemente alle argomentazioni del suo amico e compagno affermando l’importanza di fare il proprio dovere senza guardare alle conseguenze.
Arjuna perderà lo scontro verbale e sarà convinto da Krishna ad adempiere ai propri obblighi scendendo in guerra.
Questo racconto è stato utilizzato da Amartya Sen per illustrare ciò che a suo avviso sono i due tipi di giustizia che possono caratterizzare le società: Niti e Nyaya. Queste due parole sanscrite significano entrambe giustizia, ma con due accezioni differenti.
Il Niti esprime l’adeguatezza di un’organizzazione, delle istituzioni, la correttezza di comportamento e delle leggi. Il Nyaya corrisponde al concetto generale di giustizia realizzata. In termini di Nyaya il ruolo delle istituzioni, delle leggi e dell’organizzazione, per quanto importante, deve inserirsi in una prospettiva più ampia e comprensiva legata alla vita delle persone e al mondo così com’è fatto realmente.
Il dato cruciale è che per realizzare la giustizia in termini di nyaya non è sufficiente valutare istituzioni e regole, ma occorre giudicare le stesse società.
Per l’economista indiano è auspicabile l'affermarsi di un’idea di giustizia che si basi sulle persone e sulla loro vita. L’esigenza, cioè, di inquadrare la giustizia a partire dalla realtà concreta bandendo l'indifferenza rispetto al tipo di vita che ogni persona è in grado di vivere.
Per esprimere questo concetto con le parole di Sen: “Chiedersi come stiano procedendo le cose, e se sia possibile migliorarle, costituisce invece un impiego costante e ineludibile nella ricerca della giustizia”.
L’economista applica, poi, la sua impostazione teorica alle attuali istituzioni e politiche europee: queste hanno fallito, non perché le istituzioni fossero sbagliate (Sen si esprime favorevolmente alle istituzioni europee) ma per il fatto che le istituzioni e le politiche economiche del vecchio continente non hanno tenuto conto della vita delle persone, che, soprattutto a seguito alla crisi economica del 2008, è notevolmente peggiorata. L’Europa ha perciò costruito le proprie istituzioni solo in termini di Niti, mentre guardando dall'ottica del Nyaya ha fallito.
Con queste premesse, per Sen, appare chiaro capire perchè la crisi economica del 2008 abbia portato l’Unione alla situazione attuale.
Tralasciando le cause che hanno portato allo scoppio della crisi, possiamo notare come essa abbia danneggiato la vita concreta di un, incredibilmente alto, numero di europei. Ciò è stato dovuto, in gran parte, da una gigantesca operazione di trasferimento del debito privato - in massima parte delle banche - caricato sulle finanze pubbliche. Per ovviare ai deficit - a questo punto pubblici - in Europa sono stati effettuati tagli al welfare, cioè, ad uno dei capisaldi del modello europeo costruito nel dopoguerra dalla gran parte degli Stati del continente.
Le politiche europee conseguenti, come ad esempio quelle inerenti il taglio del deficit, presentate come sensate e giuste, hanno finito col non produrre istituzioni stabili nel lungo periodo né una vita migliore per la maggioranza dei lavoratori europei.
In questa cornice si inserisce la moneta unica. L’euro, potenzialmente, un grande vantaggio e un punto di forza nella competizione con le altre grandi macro-aree economiche, è, per molti versi, diventato uno svantaggio. L’Unione Europea si è caratterizzata come un’unione, unicamente, monetaria, fallendo nell'unificazione fiscale e politica e non centrando l'obiettivo di una unità fattuale tra i popoli dei diversi Stati nazionali.
La crisi di consenso delle istituzioni europee ha creato un distacco fra queste ed i cittadini. Crisi ampliata da una morsa rigorista che ha tolto potere a Stati come l'Italia, la Grecia ed il Portogallo di poter operare aggiustamenti espansivi alle proprie economie.
L’austerità, originata dai parametri di Maastricht, ha messo un ulteriore freno a Stati in situazioni di debolezze economiche strutturali. I continui tagli, invece che aiutare queste economie, non hanno prodotto altro che ulteriori contrazioni del PIL.
L'esclusione, dunque, di politiche espansive ha prodotto, tanto per i privati che per gli Stati, una spirale, diretta verso il basso.
L’austerità ha bloccato processi di crescita al fine di ripagare un debito, che, per alcuni Paesi, ha raggiunto dimensioni enormi.
Le lodi sperticate dei rigoristi verso i Paesi nordici per essere riusciti ad andare incontro ai loro auspici, e le richieste di tagli ai paesi dell'Europa meridionale per giungere allo stesso risultato, non tengono in conto del fatto che un Paese come la Svezia è riuscito a ripagare il proprio debito in un tempo di grande crescita economica ed altri Stati hanno visto i propri debiti tagliati o ristrutturati, beneficiando anch'essi di periodi di crescita e non di recessione
L’Unione Europea ha promosso pacchetti di riforme congiuntamente ai cosiddetti tagli. L'establishment europeo ha, volutamente, confuso riforme, con austerità.
Una politica riformista avrebbe distinto le prime dall'altra, generando una crescita utile a ripagare il debito.
Nello stesso ambito di riflessione, di critica alla moneta comune ed alle politiche applicate dall’Unione, si pongono anche altri economisti fra i quali i Nobel Stiglitz, Mirrless, Pissarides, Krugman. Questi economisti spingono per una riforma dell’Europa insieme ad una parte dei cosiddetti europeisti.
Parte degli studiosi europeisti rimangono invece convinti che l’unica via di sviluppo sia rappresentata dall’austerità.
In quest'ultima posizione, per Sen, si consegue il Niti (portando avanti, per inciso, interessi di classe), che non sono però gli interessi contemplati dal Nyaya.
Significativa in tal senso è situazione della Grecia, messa in ginocchio dalla crisi, affossata dalle politiche di austerità chieste dall’Unione e diventata un terreno di scontro e giochi di potere fra gli Stati.
Nel novero delle posizioni troviamo, oltre ad i sostenitori dell’austerità, europeisti riformisti ed euroscettici, che vogliono l’uscita dall’euro e dall’Europa. La recente scissione di Syriza può essere inquadrata proprio sulla base di queste diverse posizioni: da una parte chi chiede all’Europa di cambiare e per questo è disposto a sacrifici, dall’altra chi, invece, dopo anni di sacrifici non è più disposto a perseguire, ad ogni costo, la strada dell'integrazione europea.
Quello che sembra mancare nel pensiero di Sen, e di altri economisti, è però una parte propositiva contenente la necessaria concretezza.
Come sostenuto da molti economisti, la chiave di salvezza per l'Europa sta nel processo di unificazione bancaria e finanziaria, oppure in una radicale trasformazione del Fondo salva-Stati in un vero e proprio Fondo monetario europeo.
In tale ambito di discussione si dovrebbero riformare i trattati al fine di dotare l’Eurozona di strumenti anti-ciclici efficaci, come un bilancio comune, e di istituzioni politiche pienamente legittimate a gestire quel bilancio.
L’altra soluzione, auspicata dagli anti-europeisti, è quella dell’uscita dall’euro, con i costi e i rischi che ciò comporta.
Dal punto di vista del Niti e del Nyaya, si può muovere una critica all’utilizzo che si fa dello strumento del PIL. Questo, infatti, pur essendo un indicatore facilmente misurabile, non può essere utilizzato per valutare correttamente lo sviluppo di una società.
In primo luogo, il PIL non riesce a valutare nel complesso le attività economiche di una società, non considerando, ad esempio, il lavoro domestico e le attività di autoproduzione. Il PIL, inoltre, essendo una misura aggregata, non tiene conto delle disuguaglianze, anche enormi, fra i cittadini di un dato Paese.
In secondo luogo, quando si utilizza una misura come il PIL, si valuta la crescita economica di uno Stato, ma non la condizione materiale dei suoi abitanti, né se vi sia uno sviluppo umano conseguente. Lo sviluppo umano, infatti, oltre a comprendere la crescita economica, considera altri fattori legati alle condizioni di vita degli individui.
Proprio per questo motivo, soprattutto negli ultimi anni, si sono studiati nuovi indici per valutare la qualità della vita delle nazioni.
Uno di questi è l’Indice di Sviluppo Umano (ISU), che è un indicatore di sviluppo macroeconomico realizzato dall’economista pakistano Mahbub ul Haq nel 1990 (anche sulla base del lavoro portato avanti da Sen). L’ISU dal 1993 è utilizzato dalle Nazioni Unite, proprio per valutare lo sviluppo umano dei paesi membri. L’indice di Sviluppo Umano è calcolato mediante la media aritmetica di tre indici: l’indice di aspettativa di vita, l’indice di istruzione e l’indice del PIL pro capite. Esistono anche altri indici, che tengano conto di altri fattori e dati, ma spesso questi dati sono difficili da reperire e riportare in una scala comune.
La “classifica” delle nazioni secondo l’ISU è consultabile sul sito del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP). Appare subito evidente come, confrontando i dati sul PIL con quelli dell’ISU, le posizioni di alcuni Paesi siano completamente diverse nelle due “classifiche”.
Per concludere, riassumendo il pensiero di Sen, si può affermare che la situazione in cui si trova oggi l'Europa, sarebbe stata ampiamente evitabile qualora i legislatori europei avessero perseguito più il Nyaya che il Niti.
Oggi per ricostruire un’Europa che appare vicina al proprio crollo, le soluzioni proposte all'orizzonte del dibattito pubblico sono due: una uscita dall’euro od una inversione di rotta volta a ricostruire il modello tradizionale di welfare europeo.
Quale soluzione sia più agevole, meno dolorosa, e possa dare veri risultati di miglioramento della vita di gran parte della popolazione europea è oggetto di dibattito. Nessuna soluzione sembra, ad oggi, essere risolutiva. Certo è che una strada diversa vada intrapresa.
Rosanna Lau, Stefania Chisu, patriarcato, autodeterminazione e tutte noi
“Una donna italiana quarantenne malata di cazzite cronica intreccia una relazione con un tunisino di 26 anni...lui l’ammazza come un cane...non voglio vedere il suo nome nella liste delle "martiri"... Dire che se l’è cercata è il minimo... Se fosse sopravvissuta l’avrei insultata... Nel rispetto della morte provo pena per sua figlia”.
Le parole di Rosanna Lau, ormai ex delegata del sindaco di Civitavecchia, aprono una riflessione che va oltre al ruolo da lei rivestito ma che molto ci dice di quanto ancora la gabbia del pensiero patriarcale rinchiuda le menti nel nostro Paese.
Le affermazioni della Lau, non sono così diverse da quelle utilizzate, ancora oggi, da molte donne che, spesso, minimizzano o ignorano l'importanza delle parole.
Sono passati solo due mesi da quell’immagine sconcertante di Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni trovato morto annegato, a faccia in un giù come una piccola balenottera, sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, insieme al fratellino Galip di soli 5 anni. Ricordo che web, televisioni, giornali facevano girare senza tregua quella foto straziante, quell’orrore indicibile, inesprimibile, un orrore che va contro la natura, la vita, la giustizia, la fede, per chi ce l’ha. Ma oggi, a distanza di qualche tempo, quell’orrore continua a ripetersi, senza che niente sia cambiato. Altri sei bambini afghani e ieri altri 5 bambini sono morti durante la traversata infernale che li avrebbe dovuti portare verso una vita possibilmente migliore, per loro e la loro famiglia. Niente è stato fatto per fermare queste morte. Non solo di bambini, ma di donne, uomini, anziani.
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